Il Foglio sportivo

Come è dura, ma bella, la vita dei commissari tecnici

Francesco Gottardi

Campana, De Giorgi, Pozzecco e Quesada. Quattro allenatori raccontano all'evento del Foglio a San Siro l’importanza della maglia azzurra

Come spiega Fefè De Giorgi, “cambiano gli elementi della contesa: acqua, erba o parquet. Ma il nostro lavoro ha tanti punti in comune: gestiamo un gruppo, cerchiamo di creare spirito di appartenenza. E trasmettere la responsabilità della Nazionale”, sorride il ct dell’Italvolley all’evento del Foglio a San Siro, durante il panel degli allenatori azzurri nei grandi sport di squadra. Un quartetto variegato: presenti anche Sandro Campagna per la pallanuoto, Gonzalo Quesada dal rugby e Gianmarco Pozzecco lato basket. E proprio il Poz scalda subito il pubblico del Meazza: “Sono incazzato nero con Gonzalo”, dice, con le consuete doti da showman. “La pallavolo con Fefè vince sempre, il Settebello di Sandro pure. Facevo affidamento sulla palla ovale e adesso si mettono a vincere anche loro: rimaniamo gli unici sfigati”. Il ghiaccio è rotto. “Scherzi a parte, complimenti a lui perché sta facendo un lavoro straordinario”, ancora fresche le immagini del Sei Nazioni. “Non eravamo abituati a vedere risultati simili in questa disciplina: che sia d’ispirazione per tutti”.
 

I quattro commissari tecnici – li intervista Umberto Zapelloni – condividono tutti un passato da atleti: ha aiutato? “Di sicuro”, Campagna risponde per primo. “Aver vissuto l’azzurro in altre vesti dà una percezione diversa di cosa significa arrivare all’eccellenza: un conto è giocare in Serie A, un altro è farlo in nazionale e un altro ancora è vincere in nazionale”. Fefè De Giorgi sottolinea “l’importanza dell’esperienza da giocatore: essere stato dall’altra parte è un vantaggio sia dal punto di vista umano, sia per la preparazione al mestiere che svolgiamo ora. Con relative questioni e obiettivi. Anche se per adesso, l’unico qualificato a Parigi 2024 è Sandro. E infatti guardate come s’è vestito”, il solo in giacca e cravatta, altre risate. Secondo Quesada invece, “il fattore è 50 e 50. La carriera sul campo conta, ma l’errore che talvolta si commette da allenatori è essere ancora giocatori”, fa notare la guida dell’Italrugby. “In uno sport di squadra bisogna distinguere bene i ruoli. Ed è essenziale coordinare caratteri e personalità diverse”. Vulcanica, da sempre, quella del Poz. “Una cosa che mai accadrà: non allenerò me stesso. E questo è già un grande vantaggio”.
 

La chiacchierata prosegue nel segno della maglia azzurra. E qui ciascun allenatore trasmette grandi flash valoriali. “Se c’è un minimo di popolarità nella pallanuoto”, la versione di Campagna, “è perché il Settebello continua a vincere dal ’48, dando quell’emozione che spinge i ragazzi nuovi a iscriversi in piscina. Non siamo in tanti, quindi ne abbiamo bisogno: soltanto vincendo continueremo a vincere. Bastano queste parole per far brillare gli occhi dei giovani”. Per De Giorgi, sotto rete, “comunicare il significato della Nazionale è la cosa più importante. Non ci sono condizioni, non c’è niente: soltanto il piacere, le energie che ti danno quella maglia e il suo desiderio. I ragazzi ce l’hanno. Noi dobbiamo far capire un ulteriore passaggio: il tricolore sul petto non è un gioiello da far vedere, ma una grande responsabilità”. Pozzecco evidenzia le difficoltà pallacanestro, “che durante una stagione comporta un numero di partite esagerato. Per un giocatore, mettere a disposizione il proprio corpo durante l’estate è particolarmente difficile. Eppure sono fortunato: nella mia squadra questo legame con la canotta dell’Italbasket è saldissimo. I giovani ce l’hanno perché i più anziani, da Melli a Datome, sanno dare l’esempio. E fanno in modo che i nuovi arrivati a un raduno capiscano subito. Non esiste modello migliore di un proprio compagno: noi quattro l’azzurro non lo indossiamo”. E a Quesada – argentino, in panchina da pochi mesi – non è mai capitato. “Ho rappresentato il mio paese”, dice l’allenatore, “da latino so cosa significa. Ma una volta arrivato in Italia, ho approfittato di non essere nato qui per chiedere ai miei ragazzi cosa rappresenta per loro: abbiamo svolto un profondo lavoro di identità, cercando il nostro scopo, i valori e gli atteggiamenti relativi alla Nazionale. È questo che ha fatto la forza della squadra. Quest’identità un po’ latina mi ha fatto connettere con loro”.
 

Storie diverse eppure simili. “Tra gli altri sport seguo in particolar modo il basket”, spiega Campagna, “che ha molti punti in comune con il mio. Soprattutto dal punto di vista tattico: blocchi, triangoli, schemi a cinque. La pallavolo la conosco meno, ma ammiro molto la gestione psicologica dei miei colleghi durante i ripetuti ribaltamenti di risultato. E del rugby mi piace lo spirito: dare l’anima, prendere botte senza sceneggiate. È quel che chiedo anche ai miei ragazzi sott’acqua. Sono tematiche trasversali”. Anche per De Giorgi “la correttezza del rugby, che stride con la ruvidità del contatto fisico, è un esempio etico da emulare. Pure nella mia disciplina, dove il contatto invece è assente. In generale, sussiste uno scambio molto affascinante fra noi allenatori: gestire talenti, egoismi e dettagli riguarda la vita oltre lo sport”. Quesada, dalla sua, ha da recriminare. “Invidio ai miei colleghi il tetto asciutto: giocare a Edimburgo o a Roma, in pieno febbraio, è sempre un terno al lotto. Che piova o ci sia vento richiede tutt’altra preparazione, già di per sé lunga e laboriosa. Anche per questioni tempistiche è difficile che il rugby a 15 diventi disciplina olimpica. Ma sono d’accordo: alla fine ci sono specifiche strategie di gioco, eppure alleniamo un gruppo di uomini spiegando loro l’importanza della squadra rispetto al singolo. Verso un obiettivo condiviso”. Finale da cabaret del Poz. “Mi sento un po’ più fortunato”, l’ironia dell’ex playmaker. “Hanno inventato il basket, si sono accorti che era un po’ troppo facile e allora hanno aumentato le regole: voi del volley non potete prendere la palla in mano, a voialtri vi buttiamo in acqua, ai rugbisti sfigati ne diamo una ovale. Speriamo non ci rimpiccioliscano il canestro, ecco. Ma osservo quel che mi circonda con grande curiosità, soprattutto durante i timeout: gli schemi della pallavolo son tosti, Campagna dalla piscina non lo ascoltano, i ragazzi di Quesada son talmente grossi che gli spaccan la testa. Ribadisco, ho scelto lo sport che fa per me”. Evviva

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