Il capitano della Roma Lorenzo Pellegrini (foto LaPresse)  

Serie A

De Rossi ha risolto davvero l'enigma Lorenzo Pellegrini?

Andrea Romano

Il capitano della Roma dopo l'esonero di José Mourinho è ritornato a giocare come sa. Ma anche all'inizio della gestione Mou aveva dato segnali incoraggianti. La difficoltà di portare addosso il peso delle aspettative della Capitale giallorossa

Il peso delle aspettative avrebbe finito per schiacciare chiunque. Perché rappresentare il dopo-Totti in una città perennemente ossessionata da Totti significa essere condannati a camminare sull’orlo dell’autodistruzione. È stato così per tanti, ma è stato così soprattutto per Lorenzo Pellegrini, il ragazzo partito da Cinecittà che per Roma (e per la Roma) ha rappresentato tante cose e tutte insieme. Figlio prediletto, speranza per il futuro, capitano per diritto dinastico, giocatore dal talento più affilato. Ma anche promessa non mantenuta, fenomeno intermittente, leader fin troppo poco carismatico, delusione. Tutto in un sali e scendi da montagne russe, in un frullatore che ha finito per sminuzzare realtà e suggestioni. Fino a renderle indistinguibili.

Per anni a Lorenzo Pellegrini è stato chiesto di elevarsi al rango di Totti. Un’entità trascendente, quasi divina, in grado di trasformare la genialità in un prodotto seriale, in un fatto da catena di montaggio. Qualcosa di semplicemente incompatibile con un calciatore che alternava momenti di classe abbacinante a lunghissimi periodi di buio tetro. Un copione che si è ripetuto sempre uguale a se stesso. Stagione dopo stagione dopo stagione.

L’arrivo di Mourinho sembrava aver sciolto il rebus. L’incipit dell’avventura era stato addirittura sontuoso: cinque gol e due assist nelle prime nove di campionato. E poi il finale memorabile. Con la Roma che aveva alzato al cielo di Tirana il primo trofeo internazionale dopo 61 anni. Con Lorenzo che aveva sollevato la Conference League con la fascia da capitano al braccio. Sembrava l’inizio di un’era tutta nuova. Per la Roma. Per il suo numero sette.

Solo che poi la storia aveva preso una piega molto diversa. I giallorossi erano diventati la contraddizione che cammina cantata dai Green Day. Una squadra che volava in Europa e precipitava in Italia. Sempre giocando un calcio straziante. Con gli attaccanti che venivano utilizzati solo per fare pressing. Con le occasioni da gol a partita che si contavano sulle dita di una mano. Un gorgo nero che aveva finito per ingoiare tutti. Soprattutto Pellegrini. La sua ultima stagione era stata talmente deludente che in molti avevano pronosticato per il capitano un futuro da riserva di Aouar. Un’eresia. O forse no.

Questo avvio di campionato è stato addirittura disastroso. Due gol nelle prime venti giornate. E uno status da titolare che è stato messo in discussione. Meglio puntare sulla corsa di Bove che sulla tecnica di Pellegrini. Il capitano è diventato impalpabile. Ha seguito dalla panchina il derby d’andata. Così come quello di Coppa Italia. E quando l’infortunio di Dybala ha costretto Mourinho a mandarlo in campo alla fine del primo tempo, in molti hanno storto il naso. Con lui a ridosso di Lukaku la Roma si è scoperta farraginosa e inoffensiva. Tanto che i tifosi hanno bollato il suo utilizzo come un clamoroso errore da parte di Mourinho. Pellegrini non incideva più. Si limitava a vagare per il campo, "inutile e triste come la birra senz’alcool" di Enrico Brizzi. L’addio a fine stagione sembrava una pista concreta. Ma soprattutto auspicabile. Per entrambe le parti.

L’esonero di Mourinho è il colpo di scena che cambia la trama. L’uomo che diceva di venire subito dopo Dio lascia la squadra. E lascia soprattutto nell’armadietto di Pellegrini l’anello che i giocatori gli avevano regalato per la vittoria della Conference League. È un atto d’accusa esplicito. Ma è anche un gesto che spezza l’incantesimo. Con l’arrivo di De Rossi Pellegrini rifiorisce immediatamente. Come il protagonista di una fiaba della Disney. Partendo dalla sinistra di un centrocampo a tre, il sette sale verso il centro per connettersi con Dybala. E riesce sempre a creare qualcosa. Corre con la palla incollata al piede, inventa corridoi, sguscia fra gli avversari, tira in porta, ripiega in difesa. Un po’ mezzala, un po’ trequartista, un po’ seconda punta, il suo raggio d’azione si è dilatato incredibilmente. Fino a coprire tutto il campo. Segna sei gol. Mette a referto tre assist. Eppure c’è una giocata che racconta la sua crescita. E non può essere racchiusa in un numero. Nella sconfitta contro l’Inter Lorenzo prende palla prima del cerchio di metà campo, alza la testa, calcia la palla cadendo. La sfera plana fino alla trequarti, sui piedi di Lukaku, tagliando fuori due difensori nerazzurri. Il belga aggancia ma si fa ipnotizzare da Sommer. Ed è un epilogo quasi delittuoso per la giocata del capitano giallorosso.

Ora il sette giallorosso ha segnato anche con la maglia azzurra addosso. È la certificazione di un momento straordinario che per i suoi mezzi dovrebbe essere ordinario. Ma forse è arrivato il momento di gustare le giocate di Pellegrini senza doversi necessariamente chiedere dove potrà arrivare.