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Il gioco di prestigio di Mourinho nella Conference League vinta dalla Roma

Giuseppe Pastore

Roma-Feyenoord è stata il capolavoro minore della stagione dell'allenatore portoghese. A Tirana finisce 1-0. Zaniolo è il primo italiano a fare gol in una finale europea dal 2007

Vince la Roma, vince José Mourinho. E non ci sia ironia alcuna, né le tipiche polemicuzze da Raccordo Anulare, manna dal cielo in un paese che è riuscito a sminuire persino l'Europeo dell'anno scorso, figuriamoci la Conference League. E invece no: una coppa è una coppa, la vittoria – qualunque vittoria – è il primo ingrediente dello sport, e nessun vero atleta potrebbe mai ironizzare su una vittoria di un collega. Vince Mourinho, primo allenatore a vincere cinque finali europee su cinque, senza mai andare in svantaggio in nessuna di esse, anzi guidandole verso la sua meta preferita come un incantatore di serpenti: 1-0 a fine primo tempo, non del tutto meritato ma che importa (le finali non si giocano, si vincono), e tremenda difesa nella ripresa, dove nemmeno la storica predisposizione allo psicodramma del popolo giallorosso ha potuto nulla contro il piano-gara d'acciaio dell'uomo di Setubal. Per Mourinho, in fondo, vale quel che a livello superiore è riuscito quest'anno a Carlo Ancelotti: condizionare le partite e piegarle a suo favore con la forza del pensiero come faceva Uri Geller con i cucchiaini, una qualche forma di stregoneria che dopo venti stagioni (le prime coppe europee di Mourinho e Ancelotti risalgono al 2003) è ancora irrintracciabile anche per i radar più evoluti del Continente.

   

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In fondo Roma-Feyenoord – partita nervosa, con tanti errori di misura e di controllo, per quanto tecnicamente non peggiore della finale di Europa League di mercoledì scorso a tratti oratoriale – è stata il capolavoro minore della stagione di Mourinho. Il numero più raffinato e difficile, roba da laurea in manipolazione mentale con bacio accademico, è stato risalire a novembre dal gelo atmosferico e morale dell'1-6 di Bodo, sempre martellante nella testa dell'ambiente romanista come dimostrò, dopo la semifinale con il Leicester, l'immediato regalo del biglietto di Tirana ai 166 orgogliosi sventurati che avevano seguito la Roma al Circolo Polare Artico lo scorso 21 ottobre. È fin troppo ovvio constatare che, con la responsabilità di quello sfacelo, un allenatore meno corazzato sarebbe stato divorato dalle critiche e dallo scetticismo, ancor più velenoso e fatale in un ambiente che ama cuocerti a fuoco lentissimo; è lì che Mourinho ha trovato terreno fertile per rimettere i carri in quadrato come piace a lui, come ha sempre fatto, il famoso “autobus” che non è solo un aggiornamento del catenaccio (che comunque nelle finali secche funziona ancora benissimo) ma è soprattutto uno stato mentale: come Peter Sellers nell'ultima scena di “Oltre il Giardino”, il giardiniere Mourinho (molto più furbo dell'originale) è riuscito a convincere la sua rosa non eccelsa che si poteva persino camminare sull'acqua, per quanto un po' acquitrinosa come quella della Conference League, non emozionante come il mare aperto delle grandissime notti europee. E l'autobus tattico e mentale ha funzionato a meraviglia nel doppio 1-0 contro Leicester e Feyenoord che è valso all'AS Roma il suo primo trofeo dopo quattordici anni e un giorno (Coppa Italia, 24 maggio 2008, Roma-Inter 2-1).

   

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Festeggia Nicolò Zaniolo che dopo una stagione molto complicata – anche per colpa del suo allenatore, che non ha certo aiutato le sue statistiche imponendogli un abito tattico di grande sacrificio – si ritrova tra le mani un biglietto da visita mica male: primo italiano a fare gol in una finale europea dal 2007, ovvero dall'epoca d'oro di Pippo Inzaghi, e un gol pesantissimo.

Festeggia Lorenzo Pellegrini, decisamente il miglior italiano della squadra e probabilmente sul podio italiano di stagione, insieme a Tonali e Immobile, del quale si sospettava una certa mollezza comune a tanti ex capitani della Roma: e invece eccolo aderire perfettamente al nuovo verbo, andando a battagliare per un calcio d'angolo già al minuto 81.

Festeggia un piccolo tesoro del calcio italiano come Leonardo Spinazzola, tornato meno che a mezzo servizio dopo il crac di Italia-Belgio: in mezz'ora ha dimostrato per tigna e attitudine che non si diventa campioni d'Europa per caso.

Festeggia soprattutto un popolo grande, dal punto di vista sia numerico che sentimentale, e soprattutto una generazione che non aveva mai potuto celebrare nemmeno uno di quei dannati “portaombrelli” tanto invidiati ai laziali. Per loro valgono le stesse parole scritte lunedì mattina per il Milan: fare baldoria non è mai stato così dolce come in questo periodo storico in cui, all'entusiasmo naturale per poter uscire di casa dopo due anni di clausura, si unisce anche la consapevolezza di avere un buon motivo. Ma al di sopra di tutto, al di là del bene e del male, sta Mourinho, che come nessuno incarna il vecchio motto caro agli allenatori di successo: chi vince festeggia, chi perde spiega. Che ci pensi Arne Slot a esporre le ragioni di uno 0-1 nonostante un dominio territoriale piuttosto evidente, due pali a favore, una lunga teoria di accerchiamenti e cross in mezzo che non hanno portato a nulla. Sfacciato e istrione come un Gigi Proietti che si affaccia sull'Atlantico, Mourinho – con tutto quello che ha fatto e che ha vinto – riesce a incantare ancora migliaia di persone, a farci credere che sì, siano spontanee persino le lacrime per una Conference League. Si sistema il mantello da illusionista e al fin della licenza non perdona e tocca; e poi scompare col suo mistero chiuso in sé, nella notte più dolce che la Roma abbia mai vissuto da almeno quindici anni.

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