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verso Tirana

La strana simbiosi tra Mourinho e la Roma

Andrea Romano

L'allenatore si è preso davvero i giallorossi stravolgendo tutti gli stereotipi sulla sua gestione psicologica del gruppo. Stavolta non ha compattato l’ambiente contro un nemico esterno, ma contro un avversario interno. Ora la finale di Conference League

José Mourinho cammina lungo la pista di atletica ai piedi della Curva Sud. L’andatura è lenta, la faccia tesa. Tira dritto mentre dagli spalti dell’Olimpico viene giù di tutto. Cori, applausi, incitamenti, dichiarazioni d’amore. "Grazie", dice il portoghese mentre si porta la mano destra sul cuore. "Grazie", ripete mentre batte i palmi uno contro l’altro. È una scena folle e sublime al tempo stesso. Perché è un attestato di stima che arriva pochi minuti dopo un disastro. La Roma ha appena pareggiato in casa contro il Venezia già retrocesso, mettendo a repentaglio la qualificazione alla prossima Europa League. Un risultato così deprimente che solo un anno prima sarebbe stato accolto da una gragnolata di fischi e dalla richiesta di dimissioni immediate. Eppure nessuna immagine riesce a raccontare in maniera più puntuale la simbiosi emotiva che si è instaurata fra José Mourinho e i tifosi della Roma. Un "fenomeno sociale irrazionale", l’ha definito il mister. Ma in verità è qualcosa di ancora più profondo.

 

Venerdì scorso, al termine della partita contro il Torino, la Roma si è ritrovata a festeggiare una stagione chiusa al sesto posto, con appena un punto in più rispetto a quella precedente, quando in panchina c’era Paulo Fonseca. Sembra una delle prestidigitazioni di Mourinho, un trucco che riesce a rendere sfumati i confini che separano il fallimento dal successo. Invece è solamente un cambio di prospettiva. Un anno fa l’arrivo del portoghese a Roma era stato vissuto come un azzardo, come il segno del declino di un egomostro che nel corso della sua carriera si era addirittura autoincoronato unto dal Signore. La storia ha raccontato una verità molto diversa. Perché José Mourinho si è rivelato perfetto per questa Roma. E questa Roma si è rivelata perfetta per José Mourinho. L’avvento dello Special One ha tolto ogni alibi alla squadra e alla società. Perché per un biennio una città intera non ha fatto altro che arrovellarsi sullo stesso quesito: dove finivano i limiti della rosa e dove iniziavano quelli di Paulo Fonseca? I margini di crescita di molti calciatori non erano chiari. Perché in verità erano stati sovrastimati. Mourinho ha riaffermato quella che dovrebbe essere una banalità. Ossia che il valore dei giocatori che vengono mandati in campo conta eccome.

 

La Roma di José è arrivata sesta, perché quella è la sua attuale dimensione. Mancini e Ibanez non sono maturati come si sperava. Zaniolo è ancora un punto interrogativo (dal punto di vista tattico, ma anche tecnico). Cristante è diventato il miglior centrocampista della rosa. Shomurodov è un acquisto nebuloso. Il rendimento di Veretout si è liquefatto nel corso della stagione. Significa che c’è solo un modo per alzare l’asticella: intervenire sul mercato. Pesantemente. Altrimenti non ha senso affidare la squadra a un allenatore così ambizioso.

 

José Mourinho a Roma ha confermato la sua natura di Re Mida. Tutto quello che tocca si trasforma in oro. Anche un pezzo di bigiotteria come la Conference League. "La finale di Tirana è la più importante della mia carriera", ha detto Mou. È una frase imbevuta della sua solita retorica. Ma che racchiude anche una verità. La partita contro il Feyenoord può diventare pagina di storia. Per un club che in Europa ha raccolto soltanto traumi. Per un allenatore che può diventare il primo a vincere le tre competizioni continentali, che può dimostrare di avere ancora un appetito di vittoria sconfinato. E di avere ancora molto da dire.

 

Mourinho a Roma ha funzionato perché ha dato in pasto agli altri quello che tutti volevano: semplicemente se stesso. Niente svolazzi, ma concretezza. Niente diplomazia, ma la solita vis polemica, la stessa oratoria pungente. Almeno in apparenza. José si è preso davvero la Roma stravolgendo tutti gli stereotipi sulla sua gestione psicologica del gruppo. Stavolta non ha compattato l’ambiente contro un nemico esterno, ma contro un avversario interno. Dopo l’umiliante sconfitta contro il Bodø/Glimt ha detto chiaramente che avrebbe tenuto a mente i nomi dei giocatori colpevoli della disfatta. E uno dopo l’altro li ha epurati tutti. In quel momento José ha giocato una carta rischiosa. O santo o eretico. Senza vie di mezzo. Perché sbandierando i limiti dei suoi calciatori ha rischiato di perdere il gruppo. Invece lo ha conquistato. Per la tifoseria si è trasformato in santone e santino al tempo stesso, in quel leader carismatico che manca dai tempi di Fabio Capello.

 

Il peso di questa stagione va oltre la logica. Perché diventa il punto di partenza per un piano lungo (almeno) tre anni, per un progetto che non viene più ripetuto ossessivamente come sotto la gestione Pallotta. E la finale di Tirana può essere l’acceleratore di questo processo. In attesa di giocare la finale più importante della sua vita Mourinho si è preso la briga di sconfessare quell’aforisma di Flaiano che dice "Vivere a Roma è un altro modo di perdere la vita". Perché la sua potrebbe essere appena ricominciata.

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