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Crocicchi #27

La compostezza di Kristian Thorstvedt in un calcio dove il Var ha amplificato la non fiducia tra calciatori e arbitri

Enrico Veronese

Al minuto 56 di Sassuolo-Frosinone, ancora sullo 0-0, il norvegese ha visto l'arbitro fischiargli contro un rigore del tutto opinabile. Ma a differenza dell’immagine del calciatore medio, dentro di sé il centrocampista è rimasto serafico all’estremo

Nel livoroso calcio post Var, gli arbitri non si fidano più dei calciatori. Non ne ascoltano le ragioni, non credono alla buona fede, attendono solo illuminazione da una sala televisiva lontana miglia. Come si può pretendere, allora, che siano i calciatori a fidarsi degli arbitri, protagonisti negativi di questa stagione al di là delle proprie umanissime incapacità? L’unica è avere sangue d’acciaio, nervi d’alluminio e una trascendenza capace di governare le pulsioni in ogni frangente: al minuto 56 di Sassuolo-Frosinone, risultato zero a zero, Kristian Thorstvedt si vede fischiare contro un rigore del tutto opinabile. Ma a differenza dell’immagine del calciatore medio, dentro di sé il centrocampista è rimasto serafico all’estremo, in attesa della logica ragione dal Var. Il quale non poteva fare altro che riconoscere la sua estraneità ai fatti, riabilitarlo prontamente negando l’esecuzione dal dischetto agli ospiti, e solo un minuto dopo assistere alla rete dello stesso norvegese nella porta avversa. Nel calcio videosezionato la forza tranquilla è rimanere composti, non pensare di affrontare un’ordalìa, prepararsi al peggio lavorando al riscatto: mindset tipicamente nordico, figlio del portiere che trent’anni fa non si esaltò particolarmente alla notizia inverata dell’Italia in dieci per l’espulsione del suo diretto concorrente, o per la successiva sostituzione di Roberto Baggio. Erik Thorstvedt sapeva che gli Azzurri avrebbero trovato risorse per far male anche in dieci, sull’orlo del baratro come altre volte in quel Mondiale: così l’erede, ligio alla regola del “male non fare, paura non avere”, fiducioso come sempre dovrebbe poter essere un indagato innocente. Il crocicchio che ha deciso il match dello stadio Mapei, contribuendo a cambiare volto a una zona retrocessione dall’apparente futuro già segnato, è tutto in quei novanta secondi.

Problemi di mindset che attanagliano anche lo stadio Franchi, o la Fiorentina quando gioca in trasferta. Cinque rigori sbagliati nel 2004, a fronte di sei calciati da almeno tre atleti differenti: per chi razionalmente non crede alla sfortuna, sono dati di cui occuparsi. Più che lo snodo, vale considerare l’inerzia della partita: se Cristiano Biraghi avesse realizzato dagli undici metri, in quel momento, la Roma non avrebbe scosso le energie o l’adrenalina necessarie a rientrare in partita. Del suo ci aveva messo – per una volta – anche Daniele De Rossi, che esagerando nel momentum “nearly God” aveva rivoluzionato l’assetto produttivo dell’ultimo periodo, trapiantando José Angeliño a destra nonostante la disponibilità di Rick Karsdorp e Zeki Çelik, pure elogiato pochi giorni prima in Europa League: crocicchio è anche l’intelligenza di accorgersi dell’errore per tempo, ripristinare la difesa a quattro dopo una prima frazione regalata all’ampiezza (ormai si dice così) dei viola, ed evitare all’ultimo di rimanere in dieci per la quasi certa espulsione di Gianluca Mancini. Più che la sovraeccitazione da laboratorio dello scienziato pazzo che non è, saranno stati i peana celebrativi di media influenti a portare il tecnico di Ostia a stravolgere quel giocattolo che gli stava riuscendo così bene, al fine di provare la propria onnipotenza nei riguardi dell’asticella. “Fortuna” che non ha invece Thiago Motta, il quale nonostante la sconfitta di misura contro i prossimi campioni d’Italia paradossalmente rafforza le proprie chance di qualificazione nell’Europa che conta.

Nel paese che perdona o condanna i colpi di testa (in senso reale, non figurato) a seconda di chi li dà, di chi li riceve e di quando succedono, quantunque accennati, cosa può essere se non hybris l’assonanza di Zlatan Ibrahimović che, in assenza di una proprietà definita o di una presidenza almeno visibile, pare comandare il Milan come gli fosse stato regalato? Il riferimento è alla pretesa, sbandierata nei media, di mettere bocca riguardo la scelta del futuro uomo-mercato rossonero: l’ex attaccante vorrebbe tale Jovan Kirovski, conosciuto ai tempi dei Los Angeles Galaxy ma del tutto digiuno di calcio italiano ed europeo a certi livelli. Un salto nel buio che, al di là degli algoritmi per fare compere, getta ombre sinistre quanto alla scalabilità pure mediatica del mondo rossonero. Quando invece l’operazione più intelligente da compiere, se mai il calcio italiano fosse pronto alla maturità britannica, sarebbe coinvolgere Stefano Pioli anche nel futuro: magari con il ruolo di manager, à la Sir Alex Ferguson, capace di scegliere i giocatori nel rispetto delle compatibilità di bilancio. Altro che pensare di defenestrarlo: contro l’Empoli sarà stato anche calcio camminato, ma ora il Milan è secondo e ha superato la Juventus grazie a calciatori totali e accentratori (Ismaël Bennacer, Tijjani Reijnders come altrove Weston McKennie, Andrea Cambiaso) che hanno il grande e raro pregio di far giocare bene chi a loro gira attorno. Coerenza s’impone, se si vuole perseverare.

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