Foto Epa, via Ansa

Sei Nazioni 2024

Il rugby è "una partita di scacchi giocata in velocità". Intervista a Federico Ruzza

Marco Pastonesi

La seconda linea della Nazionale italiana di rugby ci spiega perché in questo sport è "indispensabile saper pensare, inventare, improvvisare"

Ventinove anni, padovano. Uno e novantotto per centootto. Seconda linea. Sabato contro la Scozia (Roma, Olimpico, ore 15.15, quarta partita del Sei Nazioni), Federico Ruzza disputerà la cinquantaquattresima partita per l’Italia.

Oscar Wilde sosteneva che “il rugby è una buona occasione per tenere lontani trenta energumeni dal centro della città”.

“Era ancora l’Ottocento. Grandi e grossi sì, energumeni e selvaggi no, ormai tutti i giocatori sono educati e istruiti. Fino agli anni Settanta-Ottanta, le regole del gioco consentivano una certa anarchia e autonomia, la possibilità di regolare i conti sul campo, alla propria maniera, oggi esiste maggiore disciplina con maggiori sanzioni, e le infrazioni fanno la differenza. Insomma, tutti bravi ragazzi fuori dal campo, un po’ meno in campo”.

Marco Paolini recitava: “Il primo ricordo è l’odore della sifcamina e dell’olio canforato”.

“Per me il campetto del Cus Padova, in fila, ad aspettare il pallone. Poi, di quel giorno, non ricordo più nulla. Ma devo essermi divertito parecchio, perché non ho più spesso. Avevo sei anni. Un mio compagno di classe, il secondo giorni di scuola, mi ha domandato che cosa avrei fatto il pomeriggio. Niente, gli ho risposto. Allora vieni con me. E ci sono andato. A casa c’era un certo scetticismo: non ti farai mica male, vero? E invece il rugby ha conquistato tutti. Prima me, poi mia sorella, che ha giocato in Nazionale, infine anche mio padre, con gli Old. Mia madre si è limitata a fare tifo e lavatrici”.

Carwyn James definiva il rugby come “un gioco di pensiero”.

“Una partita di scacchi giocata in velocità: questo detto è invecchiato bene. Il gioco fisico nasconde quello strategico, intellettuale. Oggi più che mai. La gestione dei momenti, la gestione del territorio. Prepararsi per prevedere anche l’imprevisto, anche l’imprevedibile. Siccome le variabili sono infinite, è indispensabile saper pensare, inventare, improvvisare”.

Serge Blanco dichiarava che “il rugby è come l’amore: devi dare prima di prendere”.

“Sì, è così, e non solo nel mondo del rugby. Il rugby è uno sport duro, esigente, in cui bisogna sacrificarsi prima di ottenere risultati, in cui bisogna soffrire, nelle maul o nelle mischie, prima di godere, con una meta segnata in un drive o con una punizione guadagnata in una mischia”.

David Campese proclamava: “La gente paga per divertirsi, non per vedere un pallone preso a calci”.

“Più gioco aperto che chiuso, più alla mano che, appunto, a calci. Ma anche il rugby è bello perché è vario. Dipende dalla partita: le squadre, il tempo, le circostanze, le tattiche, e bisogna prenderne coscienza. Il rugby del fango e delle mischie può sembrare meno spettacolare, dunque meno apprezzato, ma forse è più da intenditori”.

Charles Usher, ai suoi giocatori di mischia, intimava: “Non avrete fatto il vostro dovere se il vostro naso sarà a più di mezzo metro dal pallone”.

“Il gioco si è evoluto. Fino a non molti anni fa, tra i primi otto, gli avanti, c’era chi in ottanta minuti non toccava mai il pallone. Adesso, penso agli All Blacks o all’Irlanda, giocano e corrono come se fossero trequarti”.

Derek Robinson sentenziava: “La linea del vantaggio è la migliore regola del rugby”.

“Sì. Tanti discorsi, tante teorie, ma il primo obiettivo rimane quello. Il confronto, la sfida, l’uno contro uno. In difesa e in attacco. La battaglia fisica. Il trequarti che cerca di eludere l’avversario, l’avanti di sfondarlo. Il gusto della sfida individuale è fondamentale, essenziale, decisivo”.

Derek White: “Mi hanno messo una placca metallica nello zigomo, tre ferri nella mandibola e otto chiodi in testa. L’altra sera ero a Londra ad allenarmi: pioveva così forte che dopo mezz’ora sono scappato via perché avevo paura di arrugginirmi”.

“La domenica mattina non c’è un punto del corpo che non implori pace e non reclami giustizia. Ma se hai vinto, senti solo felicità”.

A proposito, Jean-Pierre Rives confessava: “Ogni volta che perdo, soffro e penso di lasciare. Ma poi vado all’allenamento, ritrovo gli amici e cambio idea”.

“Mai pensato di mollare. La sconfitta deve trasformarsi in motivazione. Voglio rivedere per capire. Rimugino, sistemo e riprovo”.

Si è detto: “I neozelandesi sono scozzesi che hanno imparato a vincere”.

“Vincono anche gli scozzesi. Bella squadra davvero: fisico, qualità, una generazione di talenti, un gruppo ambizioso, un rugby propositivo, di possesso, alla mano e al piede”.

Gareth Edwards promise: “Giocherò fino a quando avrò voglia di divertirmi sul campo”.

“D’accordissimo. E farò di tutto per divertirmi il più a lungo possibile. Non c’è niente di più profondo, entusiasmante, memorabile di una partita, soprattutto delle sensazioni prima di una partita. Non so ancora che cosa farò da grande. Mi piacerebbe rimanere nello sport e restituire al rugby, almeno in parte, quello che sto ricevendo”.

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