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Quando il migliore al mondo giocava in Italia. Il rugby di David Campese

Marco Pastonesi

C'è stato un momento nel quale l'australiano era il più forte rugbista del pianeta e scelse di giocare al Petrarca Padova. Italia-Australia è la sua partita

“Chi?”, gli rispose domandando, dubbioso di aver capito bene. “Chi, David Campese?”, gli ribadì sillabando, come per ingigantire uno che già un gigante lo era. “Ti se fora de testa”, infine gli dichiarò sentenziando, un’impresa disperata, una missione impossibile. “Cossa vuto che el vegna a far a Padova?”, gli spiegò interrogando, già rassegnato e disilluso. Ma neppure davanti a queste legittime risposte-domande, dichiarazioni-sentenze, spiegazioni-interrogazioni del suo presidentissimo Memo Geremia, l’allora tecnico del Petrarca Vittorio Munari si arrese, anzi, si accese, si incendiò, e cominciò l’inseguimento al più forte giocatore del mondo. Era l’autunno 1984. E poi l’inverno quando Campese arrivò, indossò la maglia nera della squadra dell’Antonianum e incantò.

  

Una quarantina di anni fa il più forte giocatore al mondo era un australiano che giocava in Italia. Campese, appunto. Il cognome rivela le origini italiane, precisamente venete, specificatamente Montecchio Precalcino in provincia di Vicenza, lo stesso paese dove era nato Sante Carollo, quel corridore-muratore che pedalava così piano da sconfiggere Luigi Malabrocca e conquistare la maglia nera di ultimo al Giro d’Italia (nel 1949, quando a contendersi quella rosa si sfidavano Coppi e Bartali). Munari, non potendo contare sul peso dei soldi, per sedurre Campese ricorse al richiamo della natia Montecchio, alla bellezza della vicina Venezia, alla tradizione della sua Padova intesa appunto come Petrarca, forse alla rivalità con la contadina Rovigo e la rude Aquila. E ci riuscì. Quattro anni e tre scudetti, quando la Serie A del rugby era tutto, campionato e campionario, storia e geografia, anime e corpi, primo secondo e terzo tempo, battaglie campali e pacificazioni enogastronomiche, tre allenamenti la settimana e viaggi in pulmann.

  

Ma che rugby, però. Coraggioso, orgoglioso, rusticano. Campo – così abbreviavano gli australiani – aveva esordito nei Wallabies, la nazionale giallo-oro, nel 1982, contro gli All Blacks. Il suo diretto avversario era il leggendario Stu Wilson. Quando gli chiesero che cosa ne pensasse, Campo – proprio come Geremia – rispose domandando: “Stu chi?”. Non si è mai saputo se faceva il finto tonto, provocando, o se cadeva veramente dalle nuvole. Vinsero gli All Blacks, ma Campo segnò una meta, la prima delle 64 realizzate nelle 101 partite con l’Australia.

  

Neanche tanto alto (1,80) e neanche tanto grosso (89) se misurato con le attuali dimensioni dei colleghi (trequarti ala), ma più alto e più grosso se confrontato con i colleghi di allora (tipi agili, svelti, rapidi), Campo (ma anche Stu Wilson, e tutti gli stranieri che giocavano in Italia) faceva doppia attività: l’inverno in Italia e l’estate (inverno nell’altro emisfero) in Australia, e così non smetteva mai di giocare e di segnare. Perché andare in meta era il suo compito, la sua missione, la sua specialità. “Il suo cervello – sosteneva Nick Farr-Jones, mediano di mischia di quell’Australia – non sa che cosa fanno le gambe”. L’apoteosi forse nella Coppa del mondo 1991, la seconda edizione, la prima guadagnata dagli All Blacks.

 

Quarti di finale, Dublino, i 50 mila di Lansdowne Road, Irlanda-Australia, Campo rifilò due mete, di cui una in mezzo ai pali, eppure a 5 minuti dall’ottantesimo il punteggio era ancora lì, con l’Irlanda appesa a 3 punti: 12-15. E questi 5 minuti furono indimenticabili. Su un pallone vagante si avventò l’ala irlandese Clarke, che la raccolse e la trasmise al terza ala Hamilton. Hamilton resistette a un placcaggio e si precipitò verso la linea di meta irlandese, lontana una quarantina di metri, inseguito da due Wallabies, l’estremo Roebuck e lo stesso Campo. Ma Hamilton volava. Meta trasformata, 18-15 per l’Irlanda. Adesso mancavano 3 minuti. Australia shockata, Irlanda euforica. Tanto da conquistare una touche poco fuori dai 22 degli australiani: se avesse tenuto il possesso, avrebbe vinto. Ma il pallone sfuggì all’Irlanda e fu conquistato dall’Australia. Dall’apertura Lynagh al centro Horan, Horan lanciò Campo, Campo volò in meta e Lynagh trasformò: 19-18 per l’Australia. E il silenzio invase Lansdowne Road.

 

La stessa Coppa del mondo 1991, semifinale, Australia-All Blacks. Mentre i neozelandesi rappresentavano la haka e i suoi compagni li fronteggiavano incoraggiandosi abbracciati, Campo ignorava la cerimonia e se ne andava in giro per il campo passandosi il pallone e calciandolo, il suo modo per non sentire la pressione, ma apparentemente irrispettoso. L’Australia vinse. E alla vigilia della finale, contro l’Inghilterra, Campo solennemente giurò: “Non giocherei per l’Inghilterra nemmeno se mi pagassero” (ed eravamo ancora in tempi di pseudodilettantismo). Dodici anni dopo, alla vigilia della Coppa del mondo, quella del 2003, ormai non più giocatore, sostenne che l’Inghilterra mai e poi mai avrebbe potuto vincerla: e siccome l’Inghilterra la vinse, perdipiù in finale proprio contro l’Australia, Campo pagò dazio, volò a Londra, sfilò (la walk of shame, il cammino della vergogna, invece della walk of fame, il cammino della gloria) per Oxford Street indossando, come un uomo-sandwich, un cartellone bianco e rossocrociato, stile St.George, sponsorizzato dalla società di scommesse Ladbrokes, su cui, davanti, era scritto “lo ammetto, ha vinto la squadra migliore!” (ma, dietro, “3/1 vi faremo fuori la prossima volta!”).

 

Campese era così celebre che fu trasformato in un nome. Salesi, Campese e Apakuka, tre fratelli rugbisti, i Ma’afu, uniti dal sangue ma separati dal campo: Salesi, australiano; Campese, figiano; e Apakuka, tongano. Ricapitolando: mamma figiana, papà tongano, trasferiti in Australia, a Sydney, dove alla fine degli anni Settanta il papà era andato a giocare per Drummoyne, e dove erano venuti alla luce – un po’ faticosamente, date le dimensioni – i tre fratelli. Campese deve il nome all’infatuazione del papà per David. E si racconta che quando i due Campese s’incontrarono, e quando Campese il figiano rivelò la genesi del suo nome a Campese l’australiano, Campese l’australiano rimase senza parole. Il bello è che il nome Campese è diventato un bene di famiglia: tant’è che il primogenito di Salesi è stato battezzato Campese.

   

Ogni tanto, richiamato da Munari e dal Petrarca (Campese ha giocato anche a Milano, in quel Mediolanum finanziato da Berlusconi), il giocatore più forte del mondo torna in Italia e se la gode. La sua filosofia è sempre stata semplice: “La gente paga per divertirsi, non per vedere il pallone preso a calci”. La sua sincerità è sempre stata sorprendente: “Da dilettante, sono diventato il primo rugbista milionario”. La sua battuta è sempre stata pronta: il giorno in cui ha incontrato una formazione giovanile del Petrarca, ha detto “finalmente un’occasione in cui non me la vedo con gente più alta e più grossa di me”.

  

Sabato, a Firenze (alle 14, al Franchi, più di 20 mila spettatori), Italia-Australia. Gli azzurri risaliti al dodicesimo posto della graduatoria mondiale dopo la vittoria con Samoa, i Wallabies al settimo (ma erano scesi addirittura al nono) dopo aver vinto di un punto con la Scozia e perso di uno con la Francia. Campese, ci potete scommettere, se la guarderà.

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