(foto Ap)

non solo uno sport

Oltre Sinner. Ecco perché amiamo il tennis

Giorgia Mecca

In un mondo sempre più veloce rimaniamo incollati davanti a una partita che può durare ore, affascinati da un gioco spesso monotono. La cortesia, i tempi che sono solo apparentemente morti, la sfida uno contro uno. Meraviglie e giustizia di uno sport che fa vincere sempre il migliore

I ragazzi nati dopo il Duemila ascoltano le stesse canzoni ma in versione accelerata, a velocità 1,5. Ed è così che riproducono i messaggi vocali, guardano i film, usufruiscono del mondo che gli sta intorno. Il tennis, che al momento sembra essere governato da un ragazzo italiano nato nel 2002, continua a muoversi in direzione ostinata e opposta rispetto ai gusti dei millennial. L’introduzione del tie-break al quinto set del torneo di Wimbledon è stata una rivoluzione mal tollerata ma anche un atto di pietà retroattiva nei confronti di quel 22 giugno 2010, il primo turno tra John Isner e Nicolas Mahut finito dopo tre giorni e oltre undici ore, 70 a 68 in favore dell’americano nel set decisivo. Una tortura, non solo per chi stava in campo, ma anche per gli spettatori, costretti a muovere la testa a destra e a sinistra ad ogni maledetto punto. Ne valeva la pena? No, nemmeno per chi quella partita alla fine l’ha vinta.   

 

Sui campi centrali spesso si assiste a uno sport monotono, lento, con poca azione. Tutte le sue regole, i rituali, l’estenuante cortesia per cui se un giocatore sbaglia la prima di servizio ha la possibilità di giocare la seconda, non fanno niente per renderlo più veloce. In una partita ufficiale il tempo di gioco effettivo è circa la metà della durata totale di un match. Il resto sono decine di secondi che scivolano via ad esempio nella preparazione del servizio, la pallina che rimbalza cinque, sei, otto, dieci volte prima che succeda qualcosa di utile al gioco (che poi sarebbe il motivo per cui chi paga il biglietto lo paga) e che il giocatore si degni di lanciare quella pallina verso l’alto. (Negli ultimi anni è stato introdotto lo shot clock, preso in prestito da sport più dinamici e che obbliga i giocatori al servizio a non far passare più di 25 secondi tra la fine di un punto e l’inizio del successivo. Nel caso del tennis si tratta di una regola aggirabile e 25 secondi di pausa per uno spettatore che attende che il gioco riprenda sono comunque tanti). 

 

Ci sono set che cominciano con il preciso intento di andare a finire al tie- break, e chi guarda muove gli occhi di qua e di là rassegnato all’attesa di una palla break, dell’attimo decisivo in cui 50 minuti di set si concentrano su un preciso punto del tredicesimo gioco, quello in cui la parità viene necessariamente interrotta e dove tutto ciò che è accaduto nei game precedenti perde di significato. Hai giocato un punto meraviglioso? Complimenti, non è servito a niente, o è servito a poco visto che ti stai giocando tutto sul 6 pari, 3 pari. Nel tennis non devi solo essere brillante, devi essere brillante nel momento giusto. Se lo sei nel momento sbagliato, sprechi energia, sei inefficiente. (Una cosa che Jannik Sinner ha dimostrato di avere è il senso del tempo. Palla break per l’avversario? Ace. Il modo più sicuro, più veloce e più difficile per riportarsi in parità e soprattutto per dimostrare al tuo avversario che quando non bisogna tremare tu non tremi, non tremi più. Roger Federer usciva dalle situazioni di pericolo allo stesso modo. Non ce ne sono molti altri). Ma perché in un mondo in cui stanno vincendo i messaggi vocali che si mangiano le parole, in cui saltiamo tutto ciò che si può saltare per trovarci immediatamente al centro dell’azione, rimaniamo incollati davanti a una partita di 3 set su 5 che durerà ore e che si deciderà su un massimo di 4 o 5 quindici? Nella finale degli Australian Open Jannik Sinner e Daniil Medvedev hanno giocato 283 punti, l’italiano ne ha vinti 142, il russo 141.

 

Sinner ha fatto 50 vincenti e 49 errori non forzati, Medvedev ha un bilancio negativo e non solo perché alla fine ha perso ma perché ha commesso 57 errori e solo 44 vincenti.  Le statistiche di fine match non raccontano che in mezzo a tutti questi numeri, le palline che pesano, quelle che hanno un significato sono 2, forse 3. Il resto è costruzione del momento, attesa della volta buona.  Jacopo Lo Monaco è il telecronista di Eurosport che insieme a Barbara Rossi ha commentato la vittoria di Jannik Sinner a Melbourne. E’ sua la voce che ha raccontato il primo Slam dell’altoatesino e che ha accompagnato la domenica mattina di centinaia di migliaia di italiani. Quella finale è stata vista da 1,9 milioni di persone, con un picco di 2,4 milioni nel set decisivo, per un aumento del 313 per cento rispetto agli anni precedenti. E’ vero che il tifo made in Italy è un fattore di crescita esponenziale, ma fuori dai nostri confini, Espn ha avuto 526.000 spettatori (la semifinale contro Djokovic 760.000) e sulla tv nazionale australiana la partita è stata vista da più di due milioni di persone. Dal vivo quest’anno il primo Slam della stagione ha battuto ogni record, nelle due settimane di torneo sono entrati dentro Melbourne Park più di un milione di spettatori, duecentomila persone in più rispetto all’anno scorso. La domanda è paradossale: ma perché passare una domenica di gennaio a guardare due giocatori che mandano la pallina sei, sette, otto volte dall’altra parte della rete prima di perdere o vincere un punto e di ricominciarne un altro fino al punto di rottura, il momento in cui l’equilibro si spezza e si sposta in favore di un giocatore?

 

Lo Monaco, che racconta il tennis da oltre vent’anni ed è appassionato di tutti gli sport, risponde da esperto, non cade nella provocazione, conosce bene il tennis e sa che nemmeno sul due pari del primo set si giocano punti inutili.  “In realtà non sai mai quando avverrà il punto che deciderà il set. Nel caso della finale tra Sinner e Medvedev, io credo che il momento decisivo sia stato quell’ace nel settimo gioco del quarto set. Ma prima di quel momento, ne sono successe parecchie di cose, anche se meno decisive. Io in generale trovo che sia molto affascinante cercare di capire cosa prova a fare un giocatore e come reagisce l’avversario che ha il compito preciso di non farti fare ciò che hai in mente di fare. Mi ha colpito molto una cosa che ha detto Simone Vagnozzi a Sinner alla fine del secondo set, sul 5 a 2 per Medvedev gli ha detto: ‘Usa questo game per vedere se riesci a fare qualcosa di diverso’. Dopo quel momento la partita ha avuto una svolta. Io credo che il tennis ci piaccia così tanto, da guardare e da giocare, perché in fondo è uno sport giusto, e le persone hanno voglia di vedere qualcosa di giusto. In più si tratta di una sfida uno contro uno, che è la battaglia che combattiamo tutti dall’età della pietra”

 

Ci sono voluti 128 giocatori, la maggior parte dei quali comparse, nomi sparsi e sconosciuti sul tabellone principale, primi e secondi turni all’apparenza inutili, Baez, de Jong, in totale 360 ore solo di torneo maschile tra tennis e cerimoniale (di gioco reale molto meno) per arrivare al match decisivo, la resa dei conti.  Il tennis, poi, ha questa forma di cortesia che rende ancora più lunga la faccenda. Sul 40 pari, per vincere il game, devi fare punto due volte, per essere proprio sicuro di essertelo meritato quel game (come dice Lo Monaco, “Il tennis è uno sport giusto”). Questo gesto evidentemente bianchissimo e per niente al passo con le abitudini dei contemporanei rallenta, e di molto, la pratica, illude i creduloni, genera ansia come quasi tutto ciò che accade dentro un campo, fa dimenticare una regola fondamentale: qui, a differenza che in altri sport, con i propri tempi, spesso a rallentatore, tra un incidente di percorso e l’altro, vince sempre il migliore

 

Francesco Piccolo  in un articolo per Il Tennis Italiano – la rivista di tennis più antica del mondo che oggi si presenta rinnovata – (perché il tennis oltre ad essere uno sport molto visto e sempre più praticato è anche molto letto) ha scritto: “Tutto può cambiare l’aspetto psicologico di un gioco, e può cambiarlo semplicemente per questo motivo: perché c’è tempo”. A dimostrazione della verità di questa frase che non è solo il mantra di coach di giocatori instabili, arriva in soccorso ancora una volta Jannik Sinner, che alla sua prima apparizione in una finale Slam, a 22 anni, ha dovuto capovolgere un match in cui era sotto di due set a zero, un’impresa più disperata di quanto possa sembrare soprattutto visto che l’avversario si chiamava Daniil Medvedev, ma che lui è riuscito a portare a termine per il solo fatto di avere tempo (e talento, e pazienza, e cuore, ma questo è ormai scontato). Per i tennisti è impossibile uscire dai loro schemi. Scendono in campo convinti di essere loro a comandare la pallina, a imprimere su di lei la loro volontà. Ma la verità è che, servizio a parte, si ritrovano fin da subito a doverla rincorrere, e da lì comincia un muro contro muro in cui la fantasia si rivela pericolosa, un’indole antigeometrica considerata oltre le righe, quindi out, punto per l’altro. A volte i match, tanto più se sono equilibrati, sembrano videogiochi. La velocità è troppa, il campo di azione, anzi di reazione, è limitato, ognuno fa quello che riesce affinché la pallina, la vera padrona, rimbalzi all’interno del campo. I centimetri a disposizione sono quelli che sono, le variabili infinite e nella maggior parte dei casi dipendono da più di una persona (anche il sorriso dell’ultima persona incontrata fuori dagli spogliatoi o la preoccupazione che leggi nel volto del tuo staff influiscono su quanto sceglierai di rischiare, su quanto coraggio avrai per buttarti verso la pallina in modo convincente). Il vero spettacolo di uno sport che, proprio per il tempo a disposizione, combatte contro il forte rischio di essere poco intenso, attendista, sempre uguale, diagonali su diagonali su diagonali prima di cambiare traiettoria e tirare un lungolinea che ti consente di ricominciare il solito schema, è forse proprio il fatto che sia così monocorde nonostante tutte le implicazioni che si porta dietro. La solitudine, la noia, l’azione prolungata nel tempo, la calma piatta almeno così deve sembrare e poi all’improvviso devi aumentare l’intensità, farti trovare pronto. Giocalo tu un dritto normale, preciso, quando ti sembra di non avere mai sudato così tanto e anche respirare ti sembra un’azione non scontata.  E poi l’avversario, quello stadio immenso, tutte queste persone che ti guardano e giudicheranno ogni tuo errore non forzato, la prima finale in uno Slam (Sinner), il ricordo delle ultime due finali giocate, e perse, proprio qui (Medvedev), il silenzio quando colpisci la pallina, quelle mani in faccia quando sbagli un colpo che sembrava così facile, e che non sono niente rispetto a quello che vorresti fare a te stesso ma invece devi stare calmo, perché c’è tempo e quel tempo è snervante per tutti, spettatori compresi, ma è l’unica opportunità che abbiamo perché accada quello che vorremmo che accadesse. Il vero spettacolo, forse, avviene in quelle pause estenuanti in cui non si gioca a tennis. 

 

Perché forse, in fondo, come scrisse Pier Giovanni Canepele e come riporta Matteo Codignola in “Vite brevi di tennisti eminenti”, il tennis altro non è che due figure che si muovono sul breve spazio di terreno segnato da poche linee diritte. “I loro gesti, accentuati da un oggetto strano che ne prolunga il braccio, non sembrano avere una misura e uno scopo precisi, se non quello di seguire la bizzarra corsa di una bianca palla mai ferma”.
E’ difficile credere che due giocatori si divertano dentro un campo da tennis. Cosa c’è di bello del provare a liberarsi di una pallina? Forse la bellezza, puramente estetica, di un colpo perfettamente eseguito, che esce esattamente come lo avevi immaginato? Un’ora di rincorse per un rovescio come dio comanda. E tutto il resto del tempo chi gioca per piacere dove lo trova il piacere? Nel ricordo di quel rovescio, probabilmente, o nella speranza di riuscire a replicarlo. Più realisticamente, lasciando da parte l’estetica e pensando alle cose terrene, l’unico piacere consentito è quello di non concedere piacere all’avversario. Durante uno scambio interlocutorio, come lo sono la maggior parte degli scambi del tennis, l’unico sollievo che può accompagnare la fine di un punto è sapere di non essere stato tu a perdere quel punto. I tennisti amatoriali sinceri provano felicità nel negare la felicità a chi gli sta di fronte, l’evoluzione in pantaloncini corti della lotta per la sopravvivenza. D’altronde se uno volesse davvero divertirsi non sceglierebbe di trascorrere un’ora in silenzio senza nessuno intorno

 

I professionisti non sono così diversi. Arthur Ashe non aveva problemi ad ammettere che la sua idea di divertimento non contemplava lo stare in campo. Benoit Paire non riesce a comprendere quelli che vincono il Roland Garros e invece che partire per una strameritata vacanza alle Maldive, si preparano per l’effimera stagione sull’erba. Certo, una mentalità del genere fa capire come mai il palmares del giocatore francese, geniale e inconcludente, sia così scarno. Ma anche ai piani superiori e più monomaniaci del ranking, il tennis non ha niente a che vedere con la Gioia Pura. 

 

Novak Djokovic, l’uomo che davvero ha vinto tutto ciò che si può vincere, e più di una volta, ha forse l’aria di uno che si diverte quando gioca, i suoi occhi somigliano vagamente a quelli di una persona che sta facendo ciò che ama? E Rafa Nadal? Nadal in campo prova (provava) tutte le emozioni e le lasciava trasparire, tutte tranne la gioia. Jannik Sinner è uguale a loro. Ha dovuto vincere gli Australian Open per potersi concedere il lusso di sdraiarsi per terra, guardare il cielo sopra di lui e sentirsi, per qualche attimo, davvero felice. Il suo coach Darren Cahill gli ha detto che in campo dovrebbe sorridere di più dopo un colpo bello. Un consiglio sacrosanto. Peccato che sorridere è l’ultima cosa che ti viene in mente di fare alla fine di uno scambio, anche se lo vinci. “Il divertimento è davvero un’altra cosa rispetto a quello che prova chi sta in campo. Forse ci sono dei momenti in cui è possibile vedere un giocatore appagato per aver vinto un punto, o la partita. In questo senso l’unica eccezione è Roger Federer. Lui dava proprio l’impressione di divertirsi. Ma in quel caso anche gli spettatori andavano a vederlo con lo stesso atteggiamento di chi va a un balletto, per apprezzarne l’eleganza, il gesto tecnico, la facilità di certi colpi che uscivano dal cilindro senza sforzo apparente. Federer era diverso da tutti gli altri”. Il suo tennis era fantascienza ma non era un videogame, muro contro muro e vediamo chi crolla prima. Ogni volta che scendeva in campo, anche al primo turno di un torneo non tra i principali, era come se pensasse: “Perché vincere e basta quando posso vincere e strabiliare? Perché accedere al turno successivo quando oltre all’ordinaria amministrazione posso permettermi il lusso di fare cose che qui dentro non si sono mai viste? Erano i tempi del tennis come esperienza religiosa, un tennis liberissimo, fuori dagli schemi, spesso e volentieri fine a se stesso, pura e superlativa estetica anche a costo di sbagliare due match point e perdere, forse, la finale più importante della tua carriera, Wimbledon 2019, quando il tuo avversario, Novak Djokovic, l’uomo che non si diverte mai, ha giocato per tutti e cinque i set peggio di te dal punto di vista dello spettacolo ma alla fine ha vinto mentre tu, Roger Federer, sei stato uno splendido perdente. Di quella storica finale, durata 4 ore e 57 minuti, i punti che nessuno dimentica sono tre, tre su 422: i due match point persi da Federer e il match point vinto da Djokovic. Il tempo sa essere crudele in molti modi diversi, anche quando ti ricorda il modo in cui l’hai perso. “Nel tennis dopo Federer, anche Carlos Alcaraz dà l’impressione di giocare non solo per il risultato ma anche per lo show. Dopo aver vinto il torneo di Wimbledon, però non ha più ottenuto risultati che fossero alla sua altezza. Non ha più vinto un torneo, in Australia ha perso ai quarti contro Alexander Zverev. Io credo che una delle domande a cui dovrà rispondere lo spagnolo è la seguente: vuole vincere o vuole divertirsi?”. Sarà disposto Alcaraz a rallentare d’intensità per adattarsi ai ritmi del tennis, ai suoi tempi infiniti, ai momenti di passaggio in cui è non necessario e controproducente strafare ma l’unica tattica davvero efficace da adottare è seguire l’inerzia del gioco, ridurre l’esplosività ai minimi termini per permettere di resistere, anche alla noia? 

Anche i telecronisti, racconta Lo Monaco, devono essere bravi a gestirsi. Le partite di tennis durano tanto per chiunque, anche per chi ha il privilegio di raccontarle. Ci sono momenti del match in cui le voci che raccontano ciò che accade si limitano a segnalare il risultato alla fine di ogni punto, anche quello fa parte dei preparativi del momento, la costruzione della vittoria o della sconfitta. Fino ad arrivare al match point, quando un ragazzo di ventidue anni si sdraia sul cemento, nell’angolo destro del campo, come se stesse aspettando quel momento da tutta la vita, ed è un’immagine che è già la storia di questo sport e si può comprendere fino in fondo solo se hai vissuto per intero le 3 ore e 44 minuti precedenti, compresi i minuti di noia, le interruzioni di senso e i cali di ritmo, quel tennis di livello comunque altissimo che prova a sparigliare, ad aprire una breccia. E poi tutto quello che c’è dietro, quello che c’è interno, la scenografia e l’agonismo che rendono belli da vedere anche due ragazzi sudati marci, stravolti e finiti e li rende comunque capaci di fare cose che noi comuni mortali ci sogniamo di fare. Non è fantasia, è aver voglia di vincere una finale, o avere voglia di non perderla, sfruttare fino in fondo la miglior versione di te stesso a disposizione per tutto il tempo necessario, minuto dopo minuto dopo minuto per darti l’opportunità di sperare che prima o poi, tra un’eternità, ti accascerai per terra e darai ragione a Mike Tyson quando un giorno ha detto: “La disciplina è fare ciò che odi, ma farlo come se lo amassi”. Per tutto il tempo necessario, che spesso sembrerà infinito. Tre ore e 44 minuti di noia, dolore, delusione, ansia, pensieri che portano tutti nella stessa direzione: “Non vedo l’ora che questa tortura finisca” (Andre Agassi ha passato metà della sua carriera a ripetersi nella testa la seguente frase: “Ti prego: fa’ che finisca presto”). Fino a quell’attimo, di Pura Gioia, che vorresti che non finisse mai. Jannik Sinner e chi, per interposta persona, si è sdraiato su quel campo insieme a lui.

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