(foto Ansa)

l'italianissimo

Jannik Sinner è il miglior prodotto del nostro made in Italy

Giorgia Mecca

Chissà quante volte gli è andata stretto l’aggettivo “predestinato” cucito addosso, come se il destino o il talento lo avessero mai sollevato dalla fatica quotidiana di dover mantenere la promessa

Fratello d’Italia. Le mani orgogliose sul tricolore, gli occhi lucidi per tutta la durata dell’inno, l’abbraccio dato ai suoi compagni con la voglia vera di stringerli forte, le fossette di felicità e di gioventù, mentre cammina e mangia una mela. Leggero, campione. L’Italia s’è desta, lui non ne aveva bisogno. Jannik Sinner è sempre stato qui; più magro, meno uomo ma tale e quale. Siamo noi che non lo abbiamo mai guardato con attenzione. Torino e Malaga non lo hanno cambiato, lo hanno soltanto scoperto. C’è sempre stato un rumore in sottofondo che lo circondava: Sinner è troppo serio, con un accento troppo nordico, troppo in disparte rispetto al resto del gruppo, troppo freddo, troppo silenzioso, in definitiva troppo poco italiano

 

Tutto falso, ovviamente. Voci di corridoio. Il rosso veste alla perfezione l’azzurro: leader in singolare, compagno in doppio, uomo di squadra. “Vuole davvero sapere quando sono cominciati i nostri problemi?”, ha domandato il capitano della squadra olandese Paul Haarius dopo la sconfitta con l’Italia ai quarti di finale. “I nostri problemi sono cominciati quando Jannik Sinner è atterrato a Malaga”.  In Spagna Sinner ha trovato una vendetta che non stava cercando, cinque vittorie su cinque partite, tre match point consecutivi salvati contro il numero uno del mondo Novak Djokovic prima di batterlo sia in singolo che in doppio. 

 

E’ un privilegio assistere alla genesi di un campione, nato con l’aggettivo predestinato cucito addosso, e chissà quante volte gli è andata stretta questa definizione, come se il destino o il talento lo avessero mai sollevato dalla fatica quotidiana di dover mantenere la promessa. “Sembra tutto scontato, ma non lo è”, ha detto un giorno Jannik Sinner, quasi scocciato dal dover ribadire che è sudore anche anche vincere quando tutti da te si aspettano nient’altro che vittorie, è sudore essere ogni giorno la miglior versione di te stesso, soprattutto se il te stesso di giornata si è svegliato con una strana paura addosso, la fiducia sotto le scarpe, a New York ci sono 50 gradi, dentro Flushing Meadows urlano tutti “come on Jannik, facciamo il tifo per te”, ma poi in campo ti lasciano solo, solo a prendere decisioni sbagliate, a farti venire i crampi per la tensione, con la testa piena di dubbi: “Perché non basta mai?”. Non ha mai cercato scuse o alibi per quella sconfitta: aveva i crampi, è vero, ma anche i crampi sono colpa dell’atleta e più precisamente della sua testa, che smette di fare il suo dovere.  
Era il 5 settembre scorso, Us Open, ottavi di finale contro Alexander Zverev, un caldo che fa venire la nausea, l’America ha voglia di una nuova sfida tra Sinner e Alcaraz, prima l’italiano deve battere il tedesco, ma è il favorito, c’è chi ha scommesso sulla sua vittoria di tutto il torneo. Favorito, un altro aggettivo che a giorni alterni può provocare il voltastomaco. Quel match, perso al quinto set dopo 4 ore e 41 minuti e almeno 4 ore di agonia fisica e mentale, ha rappresentato una svolta nella carriera di Sinner. 

 

In quella sera diventata notte lo abbiamo visto nel panico, in rimonta, incapace di camminare, massacrato dai crampi e dalla tensione guardare il suo angolo con gli occhi pieni di terrore: “Com’è possibile che stia perdendo un altro match al quinto set?”. Lo abbiamo visto indifeso, ostinato, in tilt, costretto ad arrendersi, con le lacrime agli occhi all’uscita del campo, lo abbiamo sentito dire con la voce rotta, non troppo convinta: “La strada è quella giusta”. 

Secondo Patrick Mouratoglou, ex coach di Serena Williams, la frustrazione è il miglior motore che ci sia. All’inizio fa un male cane, dopo un mese anche, oltre ai rimpianti i rimorsi, quella scelta sciagurata di tentare una smorzata sulla palla break, sono pensieri che non servono a niente se non a rovinare qualche notte. Dopo quella batosta, Sinner decide di non partecipare alla fase a gironi della Coppa Davis a Bologna, la sua rinuncia diventa un “Caso nazionale”, Sinner non è un italiano vero scrivono di lui, qualcuno rincara la dose: “Sinner dovrebbe scusarsi per non essere stato all’altezza di ciò che avrebbe dovuto essere”. Ai giudizi morali si sommano quelli tennistici, i paragoni con Alcaraz, “forte è forte, ma con i top 3 fa poca strada”, “forte è forte, ma appena il match si allunga il suo fisico non regge”. Novak Djokovic intanto in diretta da New York vinceva il suo Slam numero 24 e prometteva di volare a Valencia per onorare la sua squadra e il suo paese, a 36 anni.

Nel mese di settembre Jannik Sinner è diventato il nemico dello sport made in Italy, ingrato, sopravvalutato, ancora senza veri grandi titoli (il Master 1000 conquistato a Toronto ad agosto per molta stampa italiana non faceva testo, The Athletic aveva sottolineato che era nata una stella, in patria no, in patria qualcuno sosteneva che avesse vinto per mancanza di avversari all’altezza), sempre perdente negli scontri diretti contro i più grandi, irrispettoso come ribadivano una volta al giorno i grandi vecchi, quelli che mai e poi mai si sarebbero sognati di dire no a una convocazione ma che a differenza dell’ingrato non dovevano giocare 23 tornei all’anno, da una parte all’altra del mondo.

Mentre mezza Italia lo criticava sulle prime pagine dei giornali, Sinner è volato in Cina perché aveva una stagione da concludere e un obiettivo ancora da raggiungere, la qualificazione alle Atp Finals di Torino. In Asia e poi di nuovo in Europa, in cinquanta giorni Sinner si è liberato di tutti i mostri, di tutti i suoi mali: Medvedev, Alcaraz, di nuovo Medvedev, ha vinto due titoli, ha raggiunto il suo best ranking diventando il numero 4 del mondo ed eguagliando Adriano Panatta a cui ha detto: “Conosco la tua storia, ma adesso devo pensare alla mia carriera”. Sinner non è un ragazzo rancoroso, ma ha buona memoria. In queste settimane si è mosso con intelligenza e strategia, dimostrando che ha sempre avuto ragione lui. Nessuno ha giocato meglio di lui negli ultimi tornei della stagione, lo si è visto sia a Torino che a Malaga, dove ha raggiunto due finali, una vinta, l’altra persa ma con una precisazione importante: “La strada è quella giusta”, e questa volta nessuno ha nemmeno osato provare a metterlo in dubbio. 

 

A Torino dopo aver sconfitto Djokovic per la prima volta in carriera, ha anche avuto la possibilità di eliminarlo dal torneo. Se avesse perso di proposito il match contro Rune, i due qualificati per le semifinali sarebbero stati lui e il danese, con il numero uno del mondo out. Nel calcio lo chiamano biscotto, Sinner non ci ha pensato neanche un attimo: “Io contro Rune non perdo se non è lui a battermi”, ha detto appena arrivato al PalAlpitour.  Le Atp Finals sono state la consacrazione, Malaga la ciliegina, quella coppa alzata verso il cielo che porta l’Italia al primo posto in classifica della Davis. E’ arrivato a Torino con due giorni di anticipo rispetto ai suoi colleghi, durante uno dei suoi primi allenamenti sono venuti a vederlo anche Brunilde e Hanspeter, i genitori. “Ma siamo sicuri che noi qui possiamo entrare?”, ha chiesto un giorno sua madre a uno stewart che l’ha riconosciuta e le ha subito risposto: “Lei secondo me in questi giorni può fare tutto quello che vuole” facendola sorridere ma senza convincerla. “Se mi devo spostare me lo dica”. 

 

Mamma Brunilde non ha mai guardato le partite in campo, soffre troppo quando vede suo figlio soffrire. E nella genesi di questo campione italianissimo è capitato di vederlo soffrire, di vederlo perdere, scoraggiarsi, è capitato di sentirgli dire che si può perdere, ma bisogna farlo nel modo giusto. E’ capitato di sentirlo chiedere al suo angolo: “Ma che cosa devo fare?” e subito dopo ricominciare a correre. “Tutti pensano che io abbia un carattere forte, ma la verità è che ancora troppo spesso quando le cose vanno male mi butto giù”, ha detto in un’intervista a Sky Sport questo ragazzo di ventidue anni che è andato via di casa a 13 anni per inseguire poco più che un sogno e da allora non ha mai smesso di lavorare, di mangiare, respirare in funzione del tennis, che ha sentito parole e parole e parole sul suo conto e ha capito che nello sport nessuno ti regala niente, la gente parla e in campo sei da solo con una marea di gente che sale e scende dal carro a seconda dei tuoi risultati. La cosa più importante che ha imparato quest’anno gliel’ha insegnata uno dei suoi due coach, Darren Cahill. “Quando fai un bel colpo, sorridi”. Quando gli è stato chiesto di commentare questo nuovo insegnamento ha detto: “Ha ragione Darren. Quando fai un bel vincente la gente applaude, ma prima ancora tu devi essere felice perché sei riuscito a fare quel colpo”. Il miglior prodotto del made in Italy in circolazione oggi ha ventidue anni,  i capelli rossi e ci ricorda che sono la fame e i sorrisi a fare innamorare le persone di uno sport.

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