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Italia-Inghilterra, la partita che non vide Italo Calvino

Gino Cervi

Il 16 maggio 1948 allo Stadio comunale di Torino gli inglesi affrontarono per la prima volta gli Azzurri. L'Unità affidò allo scrittore il pezzo di colore sulla sfida. Che lui "visse" da fuori dello stadio, tra le vie del capoluogo piemontese

Questa sera Inghilterra e Italia si incontrano per la 32a volta nella loro storia calcistica. Il 16 maggio 1948 allo Stadio comunale di Torino era invece la quarta volta che italiani e inglesi si sfidavano. Era solo un’amichevole erano di fronte i campioni del mondo in carica e i maestri inglesi. L’Italia di Vittorio Pozzo aveva vinto, prima della guerra, nel 1938, gli ultimi Mondiali. L’Inghilterra disdegnava di mischiarsi alla plebe calcistica: loro erano gli inventori del football e non vedevano il motivo di mettere in palio con il resto del mondo la loro supremazia tecnica, tattica e atletica. Non avevano infatti preso parte alle prime tre edizioni dei Mondiali. Lo sport in quei primi anni del dopoguerra aveva aiutato moltissimo a ricostruire l’identità nazionale uscita a pezzi dal secondo conflitto mondiale: erano gli anni in cui grazie a Coppi e Bartali e al Grande Torino molti tifosi potevano dirsi orgogliosi di essere italiani.

Quell’Italia-Inghilterra del 1948 era, dunque, molto più che una semplice partita. Anche un giornale politico come “L’Unità” decise di dargli il giusto risalto, non soltanto sportivo. E inviò un collaboratore giovane, ma già abbastanza famoso, a scrivere il cosiddetto “pezzo di colore”. Così, a pagina 3 dell’edizione piemontese del quotidiano fondato da Antonio Gramsci, in taglio basso, si legge un pezzo di due colonne di una quarantina di righe a firma Italo Calvino. Calvino ha ventiquattro anni e mezzo, un mese prima ha lasciato l’impiego all’Einaudi ma proprio la casa editrice dello Struzzo nell’ottobre del 1947 gli aveva pubblicato il suo primo romanzo, Il sentiero dei nidi di ragno.

In quella primavera del 1948, all’indomani delle elezioni politiche che segnarono la sconfitta del Fronte popolare a vantaggio della Dc, Calvino aveva deciso di tentare la strada del giornalismo, anche perché in casa editrice lavorava tantissimo, lo pagavano poco e non aveva tempo per scrivere per sé (un anno e mezzo dopo, nel settembre del 1949, si ricredette e tornò a lavorare all’Einaudi). Calvino non seguiva lo sport ma sulle pagine de “L’Unità” gli è già capitato e gli capiterà ancora di doverne scrivere: a luglio di quello stesso anno Gino Bartali vinceva il Tour de France nei giorni dell’attentato a Togliatti e bisognava rispondere ai tentativi della Dc e della Chiesa di strumentalizzare i successi di “Gino il Pio”. Forse, anche per l’amicizia con l’ex collega di redazione Raf Vallone che in maglia granata ha addirittura giocato in Serie A, Italo aveva una simpatia per il Torino. Del resto chi non l’avrebbe avuta in quegli anni? In quell’Italia che affrontava l’Inghilterra erano ben 7 su 10 i giocatori del Toro: il record l’avevano però stabilito un anno prima, l’11 maggio 1947, quando contro l’Ungheria ne erano stati addirittura schierati 10, unica eccezione il portiere juventino Lucidio Sentimenti.

In quel maggio 1948 non bastarono i campioni del Grande Torino. Il risultato fu impietoso e senza appello: agli azzurri gli inglesi rifilarono quattro gol a zero. Il primo a segnare, dopo solo 4 minuti, fu Mortensen che, quasi dalla linea di fondo, sorprende Bacigalupo con un tiro d’esterno: un colpo che per un po’ di anni sarebbe diventato una locuzione, “il tiro alla Mortensen”. Poi raddoppiò Lawton. Nella ripresa chiuse i conti una doppietta di Finney. Ma di tutto questo, a Italo Calvino, che già esercitava l’acutissima pratica di scrittore-osservatore, non sembrava importare molto. Innanzitutto perché non era sugli spalti dello stadio. "Io la partita l’ho vista da fuori", inizia così il suo pezzo. Calvino visse la partita che aveva portato decine e decine di migliaia di spettatori allo stadio, che tenne incollati milioni di radioascoltatori all’inconfondibile voce di Niccolò Carosio, lontano dal rettangolo di gioco. Anzi, per lui la partita era già cominciata sabato notte quando "dalla finestra aperta mi arrivavano i rumori della città, della gente senza letto accampata sui marciapiedi e ai tavolini dei caffè, e gli strilloni che annunciavano l’uscita del giornali". Poi il giorno dopo le strade e le piazze di Torino, nell’attesa dell’evento, avevano smesso la loro "aria flemmatica di capitale settecentesca" ma "in mezzo alla generale aria di festa: il sapere che lunedì i corsi sarebbero tornati enormi e vuoti, i selciati delle vie interminabili e deserti" i torinesi non quel loro "senso di provvisorietà di questo via vai che [li] rendeva i meno allegri". Calvino non entrò allo stadio ma seppe catturare in due colonne le voci, i volti, gli umori girandoci attorno, come un signor Palomar in anticipo di trentacinque anni.

Oggi, a dire il vero, del calcio, al contrario dello scrutatore Calvino, verrebbe al limite voglia di guardare la partita e poi spegnare tutto. Illudendoci che quei 90 minuti e rotti siano la sola cosa per cui valga, forse, ancora la pena osservare, parlare, scrivere, trepidare, sacramentare e gioire per un pallone.

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