Il Grande Torino ha vinto cinque scudetti di fila prima dell'incidente aereo del 4 maggio del 1949 (foto LaPresse)

Nemmeno il fato li vinse

Piero Vietti

Settant'anni fa la tragedia di Superga. Ma oggi il Grande Torino è amato anche da chi non lo ha mai visto giocare

Il pomeriggio del 4 maggio 1949 Lucia stava facendo merenda sul balcone di casa sua, in un piccolo borgo sulla collina di Superga. All’epoca volavano pochissimi aerei, e il rombo di un motore richiamava i bambini a correre fuori e guardare in su. Quel pomeriggio Lucia sentì improvviso il rumore di un aeroplano sopra la sua testa. Alzò gli occhi, ma non lo vide. C’era una nebbia da 2 novembre, e una pioggia sottile scendeva a bagnare le ossa delle cose dal cielo spesso e grigio. Lucia non udì lo schianto, né vide le fiamme che divorarono in fretta i resti dei passeggeri di quel volo. Soltanto la sera seppe che cosa era successo, quando suo padre tornò da Torino, e già tutti sapevano, senza bisogno di social network, che la squadra più forte del mondo era entrata per sempre nell’eternità, scomparendo agli occhi di tutti al culmine della propria storia. Aveva 11 anni, Lucia, non aveva mai visto giocare il Grande Torino, ma ne sentiva sempre parlare. Non tanto a casa, dove i suoi erano appassionati soprattutto di ciclismo, ma a scuola, in giro, dappertutto. Tutti parlavano del Grande Torino, la squadra dei record che stava per vincere il suo quinto scudetto di fila, la squadra che aveva dato dieci giocatori titolari alla Nazionale italiana, la squadra che tutto il paese amava perché dopo la guerra aveva fatto capire che si poteva tornare a vincere ed essere uniti lo stesso.

 

Quattro giorni dopo, la domenica, Lucia salì col padre verso la basilica di Superga, il luogo della tragedia. Salirono a piedi, di nascosto, in mezzo a un paesaggio di inferno, alberi e terra bruciata intorno, cordoni delle forze dell’ordine ovunque. In un cespuglio suo padre trovò un pezzo di lamiera dell’aereo che trasportava il Grande Torino. “Tienilo come una reliquia”, le disse. E lei così fece, per moltissimi anni. E quando con gli amici iniziò ad andare allo stadio Filadelfia a seguire proprio il Torino – una ragazza di vent’anni, allo stadio, all’inizio degli anni Sessanta – aveva il rimpianto di non averli visti giocare. Come tutti noi. Nelle stesse ore, a centinaia di chilometri di distanza, un bambino di due anni più grande di Lucia, Paolo, stava piangendo. Aveva sei fratelli, tutti maschi, e con loro giocava a infinite partite di calcio sulla terrazza di casa, a Messina. Ognuno di loro aveva scelto una squadra, a Paolo era toccato il Toro. Quello che era iniziato come un gioco sarebbe diventato l’innamoramento della vita, passando per l’inevitabile prova della tragedia. Il pomeriggio del 4 maggio del 1949, Paolo aveva sentito parlare alla fermata dell’autobus di un aereo caduto a Superga. Da allora ha girato e gira l’Italia seguendo le trasferte del Toro ovunque, sempre spostandosi in macchina, pullman, traghetto o treno – quel giorno alla fermata dell’autobus giurò a se stesso che non avrebbe mai messo piede su un aeroplano.

 

La maggior parte di quelli che oggi parlano e raccontano del Grande Torino è troppo giovane per averli visti giocare. Ma anche chi era bambino allora non li ha probabilmente mai visti giocare. Eppure non c’è tifoso del Torino al mondo che non sappia a memoria la formazione-tipo di quella squadra (Bacigalupo, Ballarin, Maroso… e così via), non c’è tifoso del Torino al mondo che non si commuova quando rivede le loro facce in bianco e nero, le loro maglie stese in silenzio al Filadelfia la domenica successiva a quel mercoledì maledetto e misterioso, mentre i ragazzi della Primavera, chiamati a sostituirli, piangono come bambini in mezzo al campo. Non c’è tifoso di calcio in Italia che non abbia sentito la loro storia, non c’è appassionato di sport al mondo che non abbia il dovere di conoscerla. Il 6 maggio del 1949 la città si fermò, chiusa a lutto. Di quelle ore restano le cronache di alcuni dei più grandi giornalisti e scrittori italiani (Dino Buzzati e Indro Montanelli su tutti), che raccontano una commozione sovrumana, totale ed eterna.

 

La mamma di Lucia non seguiva il calcio, eppure ancora oggi la figlia ricorda le sue lacrime per quei ragazzi morti così giovani, per le loro famiglie, tanto che per anni sua madre seguì le imprese di Sandro Mazzola, il figlio di capitan Valentino. Se c’è un caso in cui la parola popolo non è usata a sproposito, è proprio quello che descrive ciò che è nato dopo quel pomeriggio di maggio di settant’anni fa. Poiché il calcio è analogia della vita, la morte è un passaggio necessario per capirne tutta la portata. E chi lo capisce è inevitabilmente legato. L’epica nasce dalle grandi imprese e dalle grandi tragedie. Ogni 4 maggio, da settant’anni, piove. Anche quando il sole illumina Superga, in realtà piove, e le nuvole basse nascondono l’aereo costretto a girare più volte sulla città prima di ricevere l’ok per un atterraggio che non avverrà mai. Ogni tifoso del Toro era su un balcone a fare merenda, quel pomeriggio del 1949. Ogni tifoso del Toro era a una fermata dell’autobus a sentire dalla voce di un altro che gli eroi che ogni domenica lo facevano gioire non c’erano più. Solo il fato li vinse, ci affrettiamo a dire ogni volta che parliamo di loro. Ma neppure il fato li vinse, se settant’anni dopo siamo ancora qui a parlarne come se li avessimo conosciuti da sempre, come se li conoscessimo da sempre. Come se non se ne fossero mai andati. Sono qua, sono in un campo da calcio dietro l’angolo a vincere tutto e giocare per sempre. Non se ne sono mai andati. Tra la nebbia e la pioggia sottile, se tendiamo l’orecchio, li possiamo ancora sentire.

 

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  • Piero Vietti
  • Torinese, è al Foglio dal 2007. Prima di inventarsi e curare l’inserto settimanale sportivo ha scritto (e ancora scrive) un po’ di tutto e ha seguito lo sviluppo digitale del giornale. Parafrasando José Mourinho, pensa che chi sa solo di sport non sa niente di sport. Sposato, ha tre figli. Non ha scritto nemmeno un libro.