Il Torino della memoria

Piero Vietti

Sessant’anni sono troppi per permettersi il lusso della nostalgia. Sessant’anni sono troppo pochi perché la storia possa relegarli a qualche pagina iniziale dei manuali del calcio o a un riquadro con la dicitura “accadde oggi”.

Ross come ’l sangh/ fòrt come ’l Barbera/ veuj ricordete adess, me grand Turin. […] T’has vinciù ’l mond/ a vint ani ’t ses mòrt./ Me Turin grand/ me Turin fòrt. (Rosso come il sangue, forte come il Barbera, voglio ricordarti adesso, mio grande Torino. Hai vinto il mondo, a vent’anni sei morto. Mio Torino grande, mio Torino forte). Giovanni Arpino, “Me grand Turin”.

 

Sessant’anni sono troppi per permettersi il lusso della nostalgia. Sessant’anni sono troppo pochi perché la storia possa relegarli a qualche pagina iniziale dei manuali del calcio o a un riquadro con la dicitura “accadde oggi”. Sessant’anni sono tutto, per il paese che li amava, per la città che non li ha dimenticati. Eppure sessant’anni sono niente per chi non li ha mai visti vivi.

 

Sotto la pioggia di un pomeriggio del 1949 la squadra più forte del mondo abbandonò la scena della sua storia ed entrò di schianto nella sua eternità. Erano le 17.03 del 4 maggio, quando la torre di controllo dell’aeroporto di Torino cominciò a sospettare che ci fosse qualcosa che non andava: il pilota dell’aereo che riportava a casa i giocatori del Torino non rispondeva più alla radio. Le nubi basse, inconsuete per la stagione, addormentavano la città da qualche ora, quando si udì l’esplosione. L’impatto avvenne alla base del muro posteriore della basilica di Superga, sulla collina da cui la Madonna guarda i torinesi. Il boato fu tremendo, le fiamme immediate. In un istante impercettibile ed eterno, il destino si portò via tutti i giocatori del Grande Torino. Loro, che non avrebbero dovuto andarsene via mai. Loro, che forse se ne andarono al momento giusto, giovani come gli eroi cari agli dei. Avevano appena messo al sicuro il loro quinto scudetto consecutivo, pareggiando 0-0 a Milano contro l’Inter, e il presidente Ferruccio Novo aveva permesso loro di andare a giocare una partita di beneficenza in Portogallo, per festeggiare l’addio al calcio di Ferreira, capitano del Benfica. Per un’ironia della sorte tutta granata, il Torino aveva perso 3-2 quell’ultima, insignificante partita. Dopo aver vinto tutto. “Arriviamo” avevano detto per telefono a mogli e fidanzate prima di partire. “Addio”, avrebbero risposto in lacrime loro il giorno dopo. La moglie di Gabetto, l’attaccante famoso per le sue rovesciate e la brillantina in testa, era stata la prima a saperlo. Dopo il botto a Superga aveva telefonato all’aeroporto. “Dove sono?”, aveva sussurrato all’apparecchio. “Sono morti tutti”, aveva risposto un filo di voce dall’altra parte. Con loro tutto l’equipaggio, alcuni dirigenti e tre giornalisti, Renato Casalbore, fondatore di Tuttosport, Renato Tosatti, e Luigi Cavallero.

 

L’abbraccio, commosso e piemontese nei modi, glielo diedero in seicentomila pochi giorni dopo, ai funerali di stato. A riconoscere i corpi, carbonizzati e sfigurati, era stato Vittorio Pozzo, allenatore della Nazionale italiana, ma eminenza grigia del presidente Novo nella costruzione di quella squadra che, insieme con Coppi e Bartali nel ciclismo, aveva ridato speranza a un paese intero dopo la devastazione della guerra, mondiale e civile. Perché così come le due ruote, il pallone giocato dalle maglie granata del Grande Torino, faceva sognare gli italiani. Tutti tifavano quei colori, comunque simpatizzavano per essi, tutti sapevano a memoria la filastrocca, Bacigalupo - Ballarin - Maroso - Grezar - Rigamonti - Castigliano - Menti - Loik - Gabetto - Mazzola - Ossola. Anche chi il calcio mai lo aveva seguito. Chi li ha visti dal vivo e oggi lo racconta dice di una squadra senza individualità spaventose, senza fenomeni, ma che era un blocco unico, insormontabile. Capace di non perdere una partita in casa per quattro anni di fila, capace di vincere uno scudetto con sedici punti di vantaggio sulla seconda segnando 125 gol, capace di vincere partite anche 10-0 (ad Alessandria, quando il granata Grezar segnò un gol stoppando di petto un rinvio del portiere avversario, Diamante, e ricalciando in porta al volo, da centrocampo), capace di essere “l’evento” da andare a vedere, l’esempio da imitare.

 

Chi muore giovane in modo tragico diventa Grande per forza, eppure loro erano Grandi già in vita, come se un Omero moderno ne avesse già tracciato il destino, drammatico e poetico insieme, prima che lo facessero le nubi basse su Torino quel 4 maggio del 1949. “Era un calcio diverso – racconta Franco Ossola – figlio dell’ala destra di quel Torino, nato pochi mesi dopo lo schianto, una vita passata a cercare e raccontare le gesta del padre mai incontrato e dei suoi compagni – ma ciò che faceva grandi quegli uomini era, oltre allo strapotere tecnico e fisico, la loro forza morale: in un momento di crisi di identità come quello del Dopoguerra fu un coagulo importantissimo per gli italiani. Rappresentavano una serie di valori che il popolo aveva come dimenticato, perso per strada: la dignità, l’onore, la fierezza. La gente si riconosceva nei suoi campioni, che erano persone normali: li incontravi per strada, al bar, alcuni di loro avevano dei negozi in centro dove lavoravano”.

 

Il racconto del Grande Torino non è però il rimpianto per un mondo che non c’è più, o il pugno chiuso contro il cielo plumbeo che ha portato via gli eroi, neppure una nostalgia pelosa per un passato che non può tornare. Non può essere così perché quel passato non se n’è mai andato. “Quando chiedo a chiunque che cosa facesse quel pomeriggio del 4 maggio – continua Ossola – non ce n’è uno che non lo ricordi nitidamente”. Oggi però, forse, una tragedia del genere non sarebbe sentita in quel modo, non ne nascerebbe una leggenda come per quella squadra. “Di sicuro no – dice Giampaolo Ormezzano, storico giornalista sportivo e tifoso del Torino – ci sarebbe subito qualcuno pronto a tirare fuori qualche gossip, qualche porcata fatta da questo o quel calciatore”. Forse è questo che dà “fastidio” del Grande Torino, continua: “Erano troppo puri – sorride – Tutto ciò che non c’era di ‘giusto’ è stato cancellato da quella morte epica, quasi omerica. Quella squadra è diventata un simbolo di perfezione. Invece erano persone come tutti, un undici che magari oggi non vincerebbe nemmeno lo scudetto”. Ma allora li vinceva. “Era una forza terrena, operaia, molto piemontese – prosegue Ormezzano – messi insieme in modo geniale dal presidente Ferruccio Novo”.

 

Nessuno come il Grande Torino, però, aveva il senso costante dell’utilità, il senso della squadra; e della rappresentanza: Coppi e Bartali erano l’Italia che vinceva il Tour, loro erano l’Italia. Anche nel vero senso della parola: arrivarono a indossare la maglia azzurra dieci giocatori su undici, una volta. Era contro l’Ungheria. Vittoria per 3-2. L’unico intruso, il portiere: Sentimenti IV, estremo difensore della Juventus. Bacigalupo, il portiere granata, era ancora troppo giovane ma, come si dice oggi, “già nel giro”. Cercando tra i resti dell’aereo, in mezzo alle lamiere fuse e alle scarpe sparse sulla collina, trovarono il portafogli di “Baciga”. Dentro, ben custodita, una foto col “nemico” bianconero. Non è un caso che l’unica maglia di club presente al museo del calcio di Coverciano, tra le decine di casacche azzurre, è quella granata con il 10 di Valentino Mazzola, il capitano. Lui, poi, era un discorso a parte. Quando decideva che non ce n’era più per nessuno, non ce n’era più per nessuno. Se il Toro era sotto, anche di due o tre gol, a un certo punto si tirava su le maniche. Dagli spalti, in mezzo alla folla, Bolmida suonava la carica con la sua tromba. In un quarto d’ora il risultato era ribaltato. Il 30 maggio del 1948, per esempio, la Lazio conduceva per 3-0. In pochi minuti fu 4-3. Il famoso quarto d’ora granata.

 

Il loro stadio, poi. Al Filadelfia, così si chiamava, la recinzione era a un metro dal terreno di gioco, e quel grido “Toro! Toro!” risuonava nelle orecchie per novanta minuti. La fossa dei leoni, la chiamavano. In quel campo, quando poi negli anni ci si spostò a giocare al Comunale, il Torino ha cresciuto generazioni di ragazzi, uomini e calciatori. Facendo loro respirare quell’aria, facendo toccare quegli spogliatoi. “Al Filadelfia c’erano muri che sembravano persone, e persone che erano come muri”, dirà anni dopo Walter Novellino, cresciuto nel vivaio e andato a far fortuna altrove. Alberto Manassero, che di Torino scrive su Tuttosport da dieci anni, conosce tanti giocatori passati dal “Fila”, e dice che “per molti di loro è bastato crescere lì per innamorarsi di quella maglia”. Magari non hanno mai giocato in prima squadra, come Giancarlo Camolese, l’attuale allenatore del Torino che ha giocato solo in Coppa Italia, o sono andati a vincere tutto con altri colori (è il caso, tra i tanti, di Diego Fuser), ma il granata ce l’hanno dentro, addosso. Poi, da un giorno all’altro, il Filadelfia non c’è stato più. In una città dove le Belle arti non fanno toccare nemmeno i marciapiedi, si è misteriosamente trovato il permesso per abbattere quel testimone imponente e silenzioso della gloria del Grande Torino. “Per ricostruirlo subito”, promisero allora politici e dirigenti. Son passati dodici anni, e se non fosse per l’amore dei tifosi, anche le poche pietre rimaste in piedi sarebbero soffocate dalle erbacce. E mentre in pochi giorni si trovano i soldi per rifare lo stadio alla Juventus, l’amministrazione (del tifoso Sergio Chiamparino) continua a trovare ostacoli burocratici per impedire che si ricostruisca almeno un campo d’allenamento. Ci sono luoghi, nella storia delle persone, senza i quali uno non è più lo stesso. Se distruggi la memoria di un uomo, hai distrutto l’uomo. Per il Torino il Filadelfia è la stessa cosa. In troppi hanno capito che su quel tasto ci si fa pubblicità gratis e si vincono elezioni. Come un mantra, ciclicamente esce fuori qualcuno con un progetto pronto, una cordata già all’opera, un sogno da realizzare. Sistematicamente non succede nulla.

 

Ma il tifoso del Toro è morto troppe volte per morire davvero, è diventato troppo cinico per esserlo sul serio. Ha imparato che il calcio è una cosa seria, perché c’entra con la vita, dato che c’entra con la morte; e come ogni 4 maggio, anche quest’anno un popolo intero sarà lì, su quel campo, e a Superga, a ricordare perché quando si parla della prima squadra di Torino non si parla solo di calcio. C’è una storia, un’appartenenza strana dietro, inspiegabile a chi non si inerpica su per la collina del disastro e non va a visitare quella lapide, i nomi incisi sopra che nessun brutto tempo cancellerà. Quei nomi sono incisi sulle ossa di ogni torinista, e di ogni torinese che quel pomeriggio di sessant’anni fa c’era. Quando si parla del Grande Torino non c’è sfottò che tenga. E’ poesia, quella, epica, trionfo e tragedia. Mica solo calcio. Ogni tifoso del Torino ha visto giocare il Grande Torino. Anche se non era ancora nato. Sembra insensato, ma è così. Non è un rimpianto, il commemorare gli eroi di Superga, perché non puoi rimpiangere ciò che non hai visto. E’ l’orgogliosa coscienza di appartenere a una storia che nessuna Champions League potrà eguagliare, mai. Sessant’anni sono troppi per vivere solo di un’idea.

 

Sessant’anni sono troppo pochi perché tutti i disastri (societari e non) che da quel 4 maggio hanno attraversato la storia del Torino potessero uccidere quel popolo. Forse il Toro non c’è più. Forse il fallimento di tre ani fa e quello che ne è venuto dopo hanno come narcotizzato una storia unica nel mondo (nessuna squadra di calcio ha così tanti libri, film e documentari dedicati), certo il “calcio moderno”, in cui il tifoso granata si trova a proprio agio come un pallone sgonfio in cima a un albero, vorrebbe normalizzare la leggenda. Eppure ogni 4 maggio sono migliaia le persone che salgono su alla basilica, che prendono messa insieme ai giocatori e ai vecchi campioni, che portano un fiore o una preghiera agli Invincibili. Arrivati sul piazzale di Superga, quello che guarda Torino, è normale fare il giro, andare a vedere dove tutto è incominciato. Se uno chiude gli occhi, sente l’acqua sui vestiti, la nebbia nei polmoni; poi, alle spalle, il rombo imponente e fatale. Di colpo è schianto, crollo, fuoco, motori. Poi silenzio. Solo pioggia a rimbalzare sul metallo piegato. La domenica successiva, in campo scesero i ragazzi delle giovanili, i volti rigati di lacrime. Dagli spalti, la tromba di Bolmida e quel coro: “Toro! Toro!”, che continua ancora oggi. Non sono scomparsi, i Campioni. Sono andati a vincere tutto da un’altra parte. Per sempre.

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  • Torinese, è al Foglio dal 2007. Prima di inventarsi e curare l’inserto settimanale sportivo ha scritto (e ancora scrive) un po’ di tutto e ha seguito lo sviluppo digitale del giornale. Parafrasando José Mourinho, pensa che chi sa solo di sport non sa niente di sport. Sposato, ha tre figli. Non ha scritto nemmeno un libro.