Il Foglio sportivo

L'eterno Giorno della marmotta del rugby italiano

Michele Dalai

La Nazionale che perde sempre è l’effetto, non la causa, della crisi. Il budget c’è, le idee no.

Il 20 agosto gli All Blacks si sono seduti sulla panchina di Ted Lasso, quella delle birre e delle chiacchiere notturne tra l’allenatore più squinternato e amato della storia delle serie tv e il suo assistente Coach Beard. Una squadra forte, un marchio popolarissimo e dominante del rugby mondiale ha scelto di presentarsi in chiave ironica, di iniziare il suo viaggio verso la Coppa del mondo 2023 con un messaggio molto chiaro, quello dell’empatia, della prossimità. Dopo qualche giorno, Taika Waititi si è unito al gruppo e ha realizzato dei contenuti speciali per il web, sempre nella stessa chiave narrativa. Waititi è un regista e comico neozelandese che ha vinto un Oscar per la miglior sceneggiatura non originale con Jojo Rabbit, che ha anche diretto.

Più o meno nello stesso periodo, qualche settimana prima a dire il vero, la Nazionale italiana di rugby si allenava con l’esercito. Orienteering, saluti militari, pose muscolari e marziali, l’esibizione della forza e il culto dell’uomo rude a tutti i costi, dei valori del rugby come tradizione rude e maschia.

Nelle settimane successive è apparso sui social della Federazione un giovane influencer molto agitato che spiegava le regole del rugby a un pubblico giovane e inesperto, almeno nelle intenzioni. Il motivo della sconfitta più umiliante e sorprendente di questo mondiale (96 a 17 per gli All Blacks) non è di certo da cercarsi nelle scelte strategiche della comunicazione e nemmeno nell’approccio amatoriale e un po’ naïf al palcoscenico di uno sport che nel mondo viaggia ormai a una velocità diversa e non ha bisogno del didascalismo estremo per raccontarsi.

Le responsabilità del campo stanno sul campo e appena fuori, ma il parallelo con la macchina perfetta di sport e comunicazione che sono ormai i neozelandesi serve a capire un po’ meglio le ragioni del nostro infinito Giorno della marmotta, del risveglio sempre più brusco di uno sport minore ma ricchissimo dai suoi sogni di gloria e di conquista.

Nel rugby più che in ogni altro sport di squadra la Nazionale è il terminale unico di ogni progettazione, sviluppo e nevrosi dello sport. Più che la squadra degli italiani è la squadra del presidente, una specie di Super club che assorbe tutte le energie, le ambizioni e le speranze di uno sport in perenne conflitto con il proprio nanismo e la mancanza di credibilità rispetto ai fratelli maggiori e più vincenti (calcio, basket e pallavolo in primis). Nel rugby si tende a considerare ogni partita della Nazionale come una vetrina per tutto il movimento e si proiettano velleità personali e collettive sulla squadra, unico strumento di possibile crescita.

Solo che la Nazionale perde, spesso o quasi sempre, e dopo ogni delusione in carta carbone rispetto alla precedente si torna a interrogarsi sulle ragioni dello scempio e si tende a cercarle altrove in un crescendo belushiano (le cavallette, le mamme italiane, la mancanza di tradizione, il güididípi) che ormai farebbe quasi tenerezza non fosse grave.

Le casse dello sport italiano hanno versato alla Federazione italiana rugby qualche centinaio di milioni negli ultimi 20 anni. Per intenderci: il budget della Federazione Argentina (Uar) che si è di nuovo qualificata ai quarti di finale sta in un range compreso tra i 5 e i 10 milioni di euro, molto probabilmente più vicino ai 5.

Il budget di Fir oscilla tra i 40 e i 50 milioni di euro, con una continuità più che garantita dai primi anni Duemila, quelli in cui Giancarlo Dondi, l’unico vero talento illuminato della politica del rugby italiano, ha intuito che per competere con i migliori bisognava giocare contro i migliori e ci ha trascinati di peso nel Torneo delle Sei Nazioni. Da allora una lunga traversata nel deserto, iniziata forse nel 2007 quando la Nazionale perse contro la Scozia la possibilità di accedere ai quarti del Mondiale e cambiare la storia, continuare l’ascesa.

In tanti hanno stigmatizzato il dichiarazionismo un po’ sventato del presidente e del suo entourage, le sparate sulla possibilità di battere una tra Francia e Nuova Zelanda (partite terminate con passivi umilianti) e certo non è stata una gran mossa o almeno è una mossa che denota poca consapevolezza dei propri mezzi, della struttura che si governa e dello stato dell’arte del rugby mondiale, ma continuare a piangere sul latte versato e fotografare una condizione disperata non aiuta a uscirne.

Al di là delle storture del funzionamento sclerotico delle federazioni sportive italiane che vivono di infinite campagne elettorali, spoil system violentissimi alternati a stalli messicani inquietanti, i punti necessari a un possibile cambio di scenario sono tutti lontani dal campo e dalla Nazionale, che come scritto è solo l’effetto e mai la causa del disastro. Giochiamo male perché pensiamo male. Quello del presidente della Federazione è un piccolo potere assoluto. Piccolo perché del tutto irrilevante nell’economia delle cose del mondo, assoluto perché lo è nella determinazione del destino di uno sport sempre più in crisi. Come tutti i poteri assoluti prescinde da competenze e capacità strategiche e non può funzionare, difficile affidare un ente con un fatturato così importante a chi ha esperienze diverse ed è affiancato da figure politiche o di burocrati prodotti dal Coni, senza alcuna consapevolezza dello sviluppo frenetico che uno sport globalizzato ha nei paesi guida.

Servono competenze specifiche e separazione dei poteri, serve un piano strategico vero per allargare un movimento asfittico a cui chiediamo di competere con i migliori senza mai dotarlo degli strumenti, più banalmente dei corpi. Serve portare il rugby agli italiani, raccontarlo senza necessariamente divulgarlo con machismi militaristi e influencer, portarlo nelle scuole e nei luoghi depressi dove lo sport ha ancora una funzione salvifica, dove i valori sono valori.

Poi, forse solo poi potremo tornare a parlare di Nazionale e potenziale, di vittorie e promesse (troppe, davvero troppe negli ultimi anni).
Per ora il rugby è di nuovo lo sport un po’ spocchioso che si racconta bene e razzola malissimo, giocato da pochi e deriso da molti.
Servirebbe un po’ di empatia, servirebbe un’idea, servirebbe un po’ di lavoro, servirebbe fare i rugbisti anche nei fatti e nella pianificazione e non solo nel racconto di sé mentre un altro mondiale se ne va.

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