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Il foglio sportivo

Pietrangeli, 90 anni da gran signore

Giorgia Mecca

Il campione che ha scelto la racchetta per i viaggi: “Ho fatto una bella vita prima e dopo il tennis. Quando dissi no a chi voleva nudi me e Panatta”

Esiste un prima e un dopo Pietrangeli. Prima di lui il tennis era stato un affare straniero, un passatempo per ricchi inglesi in villeggiatura in Liguria. All’Italia piaceva il pallone, e pure Nicola, nato l’11 settembre di novant’anni fa, da piccolo sognava di fare il calciatore. “Fino a diciotto anni sono stato più bravo con i piedi. Ha presente Gianni Rivera? Ogni volta che ci vediamo gli dico che è stato fortunato. Se avessi preferito la Lazio a Wimbledon, forse non avremmo mai sentito parlare di lui”, dice ridendo. Ha cominciato la sua carriera da centravanti, a cercare di segnare, l’ha finita da portiere, a parare i gol degli altri. Negli anni Cinquanta il tennis non era la magnifica ossessione di oggi, ci si allenava poco, si giocava poco, si guadagnava ancora meno, quasi niente. Pietrangeli ha scelto la racchetta per i viaggi. “A ventiquattro anni sono andato in Australia, in America, Norvegia, poi Londra e Parigi. Ho visto posti che altrimenti non mi sarei potuto permettere. Non che col tennis di allora si diventasse ricchi. Quando ho vinto il Roland Garros la prima volta ho guadagnato 150 dollari, vale a dire 620 lire, che oggi sarebbero duemila euro circa”.

La finale del 1959 contro Vermaak e ancora di più quella dell’anno successivo con Ayala sono uno di quei momenti conservati nel cassetto della memoria e delle meraviglie, insieme agli Internazionali d’Italia vinti nel 1957 e nel 1961 e alla semifinale di Wimbledon contro Rod Laver nel 1960. A chi gli dice che quella partita a Londra l’ha persa lui risponde: “Che c’entra?”. Una frase che ribalta il tennis di oggi. “Ormai arrivare secondi, perdere una partita, è diventata una vergogna, anche se l’uomo che ti ha battuto è un certo Rod Laver. Ma è sbagliato pensare che vincere sia l’unica cosa che conta. E’ un ragionamento da tifosi, non da sportivi”. Grazie a quest’uomo brizzolato che è sempre rimasto seduto sugli spalti a guardare il movimento crescere, l’Italia ha capito che il tennis non è un paese straniero, e allora ecco Panatta, Barazzutti, Bertolucci, i gesti bianchi che diventano rotocalco, non proprio uno sport popolare ma nemmeno un altro pianeta. “Sono stato fortunato. Ho vinto più di quanto abbia perso. A quarant’anni, senza dolore, ho capito che era il momento di smettere. Non ho mai rimpianto il calcio. Dopo il ritiro è cominciata un’altra vita, forse meno brillante e con meno adrenalina, ma è stata una vita bella uguale".

Paolo Rossi, dopo la vittoria al Mondiale del 1982, confessò che oltre alla gioia aveva provato un senso di amarezza: non avrebbe mai più vissuto un momento del genere. Non aveva ancora compiuto 26 anni e sapeva che quella felicità piena non l’avrebbe provata mai più. Un pensiero tremendo con cui gli sportivi combattono tutte le volte che alzano un trofeo: finirà troppo presto. Nicola Pietrangeli la pensa allo stesso modo. “E’ difficile da spiegare a chi non l’ha mai vissuto (e sono tantissimi, purtroppo per loro). Ma a Parigi io sapevo che quella felicità era una cosa soltanto mia. Con le sconfitte il pensiero era il medesimo, ma questa è la maledizione di chi gioca a tennis”. Il tennis ha dato tanto a Pietrangeli e Pietrangeli ha dato tanto al tennis, basterebbe questo per vivere in pace. Prima in campo, poi da capitano di quella Davis prima vergognosa e quindi da dimenticare, e poi finalmente riscoperta grazie alla bellissima docuserie di Domenico Procacci “Una squadra”. Era il 1976 e il luogo della finale era Santiago del Cile, l’Italia cominciò a manifestare, sui giornali si parlava di poco altro: “Non si giocano volèe con il boia Pinochet”. Pietrangeli, che allora aveva quarantatrè anni, disse che gli avrebbero dovuto ritirare il passaporto per impedirgli di partire, la Davis era stata l’unico suo sogno non realizzato da giocatore, voleva provare a vincerla da capitano e a farla vincere ai suoi Panatta, Barazzutti, Bertolucci e Zugarelli. Vinsero nell’ombra, a Pietrangeli poco importa.

La notte del rientro in Italia (da un’uscita secondaria per non farsi menare) ha dormito nel letto con la Coppa. Quella squadra era giovane, bella e vincente. Poco apprezzata in patria, (“anche se pure Giulio Andreotti dopo la vittoria fece mea culpa dicendomi che avevamo fatto bene a partire, una responsabilità solo mia, che non divido con nessuno”) ma richiestissima all’estero. “Eravamo in Australia per la Davis. Un giorno mi chiama una signora, direttrice di Playgirl, il Playboy per le donne. Mi chiede se io e la mia squadra vogliamo fare un servizio per il giornale. Nudi. ‘Ma nudi nudi?’ le chiedo io. ‘Nudi nudi’, risponde lei. Ovviamente risposi di no, a me piaceva che tutti andassimo in giro vestiti in giacca e cravatta, rappresentavamo il tennis italiano e l’Italia nel mondo. Lei provò a insistere, mi disse che andavamo bene anche soltanto io e Panatta. Però nudi”. Anche grazie al tennis Nicola Pietrangeli ha vissuto anni incredibili, il tennis lo ha fatto diventare un campo del Foro Italico, il campo più bello del mondo, l’unico stadio intitolato a una persona vivente. “Oggi è tutto un altro mondo, e lo dico senza invidia per i giocatori di oggi”.

Forse il tennis di oggi gli piace meno di una volta, eppure sugli spalti lui c’è sempre, ci sarà anche a Bologna il 13 settembre per il primo incontro della fase a gironi, contro il Canada. La Davis è ancora casa sua, anche se spera che nell’albo d’oro dei vincitori della competizione quest’anno ricompaia, dopo 47 anni, il nome Italia. “Il tennis esisteva molto prima di me, ha presente il libro di Clerici?”. Pietrangeli fa il modesto, non lo dice ma lo sa che non è del tutto vero. E’ stato lui il primo a farlo conoscere agli italiani, sono state le sue foto in bianco e nero l’inizio di un percorso che nel tennis coloratissimo e ad alta definizione di oggi ci porta fino a Sinner, Musetti, Berrettini. Il passato è sempre lì, serve anche quando non hai più bisogno di ricordarlo. A novant’anni Pietrangeli è un uomo a cui ogni tanto piace ancora provocare, qualche secondo dopo la provocazione pensa sta già pensando ad altro. Per esempio, la sua foto su WhatsApp. “È mia nipote. Si chiama Nicola come me. Questo vuol dire che Nicola Pietrangeli ci sarà anche dopo di me”.

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