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il personaggio

Rocky d'Abruzzo: la leggenda Marciano a cent'anni dalla nascita

Francesco Palmieri

Un italo-americano qualunque sul ring. Incassava, picchiava e non ha mai perso un incontro. Storia di un campione leggendario

Why waltz with a guy for 10 rounds, when you can knock him out in one? (Rocky Marciano)
 

La premessa è in qualche numero: 49 match disputati e 43 vinti per ko; zero sconfitte; 178 centimetri d’altezza e 170 di distensione delle braccia; 84 chili (al più) di stazza. Poco per un peso massimo, molto poco per un campione del mondo dei massimi. Oggi come allora, nel 1952, quando Rocco Francis Marchegiano alias Rocky Marciano strappò la cintura della categoria più ambita a Jersey Joe Walcott al Municipal Stadium di Filadelfia. Lo mandò al tappeto alla tredicesima ripresa, dopo essere finito giù lui una prima volta durante un match spietato e scic: mezza Hollywood sedeva a bordo ring. Frank Sinatra, Sammy Davis jr, Clark Gable, Humphrey Bogart, Dean Martin, James Cagney, mentre l’America seguiva la diretta per radio, in tv o nelle sale cinematografiche.

Il figlio degli emigrati italiani assurto quella sera all’Olimpo pugilistico aveva cominciato a combattere tardi. Dopo un primo episodico incontro da professionista, la sua marcia comincia a venticinque anni contro Harry Belzarian: 92 secondi per metterlo a terra. Sgraziato, con uno scarno patrimonio tecnico, nessuna concessione allo spettacolo nemmeno fuori del ring, nessuna infanzia infelice né eccentriche declamazioni poetiche o polemiche alla Muhammad Ali, solo poche parole ma allenamenti silenziosi e severissimi. Una personalità concava, plasmata più sulla detrazione che sull’apparenza, cresciuta con gli spaghetti di mamma Pasqualina, sotto l’umile fierezza del papà Quirino Marchegiano detto Pierino, che si vantava per un figlio “che non ha mai dato un dispiacere alla famiglia”, pregando ogni domenica a messa sotto la statua di sant’Antonio nella chiesa di St. Patrick. Lui fu l’antidivo che ispirerà nel nome il Rocky Balboa di Sylvester Stallone, il quale vi aggiungerà un tocco di identificazione personale e brandelli tolti alle vite di altri pugili, Chuck Wepner soprattutto, atleta dalla carriera assai meno brillante di Marciano, uomo da nota a margine nella storia della boxe.

Sebbene meno accattivante dei tanti maledetti campioni che il pugilato ha profuso con generosità, da Liston a Monzon, il “bombardiere di Brockton” Rocky Marciano splende ancora di luce inimitabile 68 anni dopo il suo ritiro e a un secolo esatto dalla nascita, il primo settembre 1923. La ragione della sua leggenda è innanzitutto l’imbattibilità: unico tra i pesi massimi con un ruolino immacolato e unico tra i professionisti del ring fino al 2017, quando il superwelter Floyd Mayweather superò il record vincendo contro il lottatore riconvertito delle Mixed martial arts, Conor McGregor. Ma è un successo appartenente ormai a una storia nuova, che tutti ci accorgiamo si va scrivendo tra TikTok e pay tv, tra cazzeggi e tatuaggi.

La seconda ragione della leggenda di Rocky è meno leggendaria ma ricorre spontanea in chiunque, affascinato dalla sua figura, la scandisce nel commento conradiano del Lord Jim: lui era uno di noi. Né un colosso né un mostro innato, non un “inspirational artist” come Ali né l’uomo più cattivo del mondo come Tyson (comparabile per la statura a Marciano, ma con 15 chili in più di massa muscolare). Rocky fu l’uomo qualunque che s’incorona re. Ne rimase stupito Nino Benvenuti, cresciuto nel suo culto quando era un ragazzo che esordiva nella boxe a Isola d’Istria e lo conobbe in occasione del suo famoso match con Emile Griffith nel ‘67. Nino, peso medio, si trovò di fronte a un uomo delle sue stesse dimensioni. Ne rimase colpito il giornalista Giuliano Orlando, storico della boxe che dedicò a Rocky Marciano una essenziale biografia: quando gli strinse la mano al Madison Square Garden, dove gli ex campioni dei massimi facevano passerella in attesa del match Ali-Zora Folley, lo trovò il meno imponente di tutti: “Clay lo sovrastava, per non dire di Folley dal fisico impressionante”.

Eppure Marciano si disfa con brutalità di parecchi giganti: quando incontra Rex Layne, 195 centimetri e 97 chili, lo mette ko e ci vorranno alcuni minuti perché riprenda conoscenza; Bill Wilson, 190 centimetri e 105 chili, ci rimette due denti; andò peggio a Eddie Ross (quattro denti); e per liquidare un altro colosso, Humprey Jackson di 115 chili, Marciano impiega meno di un minuto e mezzo. L’arma definitiva è il gancio destro, che soprannominò Suzie-Q come un balletto in voga negli Stati Uniti prima della guerra. Quel colpo fece di Rocky il più grande picchiatore della storia, a dispetto dei manager cui si propose ai primi tempi in una palestra di New York e sogghignarono per come si muoveva, o non si muoveva proprio, sul ring. Finché non esibì nello sparring il pugno micidiale. 

All’apparenza sì, restava uno qualunque. E nella sostanza anche una brava persona: il 30 dicembre del ‘49 combatte contro Carmine Vingo, altro figlio di emigrati italiani, un ventenne del Bronx col curriculum promettente. Al sesto round Rocky lo investe con un montante al mento e chiude l’incontro. Scoprirà, mentre è in conferenza stampa, che Vingo ha riportato un trauma cranico e sta lottando con la morte in ospedale dove ha già ricevuto l’estrema unzione. Marciano corre al suo capezzale e non si darà pace finché Carmine non sarà dichiarato fuori pericolo. I fotografi sorprendono Rocky che prega nella chiesa di St. Patrick per la vita del ragazzo. Pagherà con la sua borsa le spese mediche, si scuserà con la famiglia Vingo e diventerà uno dei migliori amici di Carmine, che però resta zoppo e deve dimenticare la boxe.

Rispetto per l’avversario, mai un’offesa o una parola di troppo: se per noi questa è retorica dello sportivo, per Rocky è la normalità che gli ha insegnato mamma Pasqualina, la quale non vorrà mai assistere a un suo incontro perché s’impressiona. E’ la normalità che gli ha impartito, abbinata alla fame di riscatto, papà Pierino, un uomo esile che ha peggiorato la salute lavorando tutta la vita in una fabbrica di scarpe del Massachusetts, a Brockton, chiamata dagli americani Shoe City perché le sue aziende producono calzature per tutta l’America. I Marchegiano ci sono arrivati da Ripa Teatina in provincia di Chieti, dove si tramanda il culto alla Madonna del Sudore; i Picciuto, ramo materno, vengono da San Bartolomeo in Galdo, angolo impervio del Sannio, e si sono fatti conoscere a Brockton per la prominente personalità di Luigi, il padre di Pasqualina, anarchico schedato, amico di Sacco e Vanzetti.

Quando Rocco, che è il primogenito ed è ancora un bambino, porta il pranzo caldo in fabbrica al papà, Pierino gli raccomanda di non finire come lui. A casa lo vorrebbero laureato, ma Rocky sogna di diventare una stella del baseball. Ed è per questo che scopre il pugilato, perché un giorno s’apposta coi due amici del cuore vicino al campo d’allenamento di una squadra locale aspettando che una palla voli fuori per rubarla. Finisce in rissa con il ballboy, un ragazzo più grande che pesta Rocky di botte. Tornato a casa, come i figli delle famiglie meridionali sanno benissimo e a volte fingono di dimenticare, Rocky non viene compatito ma rimproverato per averle prese. Così, uno zio gli riempie di trucioli una sacca militare, la aggancia a un albero e gli insegna a colpire. Sono le prime prove del Suzie-Q. Spesso la biografia dei grandi pugili comincia dopo qualche legnata incassata per strada. Come per i buddhisti il principio dell’illuminazione.

Sono anni in cui regna, sull’America e nel mondo, il mito di Joe Louis, primo pugile nero che piace anche ai bianchi, soldato patriottico, apollo del ring. E’ un modello per Rocky, il quale non può immaginare che un giorno lo sfiderà: al Polo Grounds di New York nel 1951. Louis ha 37 anni e un arretrato di mezzo milione con il fisco gli fa nuovamente indossare i guantoni (ma undici anni dopo, quando Gay Talese lo conosce per intarsiarne il ritratto, il debito non sarà ancora estinto). Il match tra il giovane Marciano e la leggenda del passato si prolunga per otto round, con il jab sinistro di Louis più volte a segno finché il bombardiere di Brockton lo umilia con un brutale knock-out davanti a milioni di americani che li seguono in diretta. Louis, che Talese scoprirà essere un arguto freddurista, commenta quella volta laconico: “Doveva succedere”. Marciano, dopo la proclamazione, si mette a piangere perché ha sconfitto il suo mito. E’ la gioiosa, contraddittoria mestizia che solo chi un mito ha veramente amato può soffrire. Non era certo più il Louis di una volta, perché il tempo corrode, ma anche allora Marciano dovette beffare le misure, essendo più corto di dieci centimetri e di ventitré per estensione di braccia.

Quale dote prevalse sui dati antropometrici e sostenne la parsimonia tecnica di Rocky? Secondo Benvenuti, “la straordinaria resistenza al dolore, la capacità di assorbire senza fermarsi colpi tremendi, l’assoluta mancanza di paura” ma “soprattutto, la selvaggia volontà di voler vincere a ogni costo”. Questa estate, nel centenario del campione, il giornalista Dario Ricci (direttore artistico del Festival che a Ripa Teatina affianca l’annuale Premio Rocky Marciano) ha raccolto in volume le sue ricerche svolte tra San Bartolomeo in Galdo, per scovare gli antenati materni del pugile, e Brockton, per parlare con suo fratello minore Peter e visitare la casa dove tutto cominciò. Nell’immaginario perdurante il lascito di Rocky continua a oscillare tra i due lati dell’Atlantico, uno a stelle e strisce e l’altro tricolore, sicché una tappa del libro Rocky Marciano - Sulle tracce del mito 1923-2023 è Cinisello Balsamo, periferia milanese, dove al bombardiere di Brockton è intitolata la palestra in cui è cresciuto il campione olimpico dei massimi Roberto Cammarelle. Per lui il segreto di Rocky fu la capacità “di trasformare i propri limiti in qualità”, di lavorare “in modo anche innovativo per migliorarsi e curare ogni dettaglio”. Fu il primo a introdurre il footing nella preparazione atletica, a prendersi cura dell’alimentazione e ad allenare abilità trascurate a quel tempo (per sveltire il colpo d’occhio fissava lungamente il moto di un pendolo appeso al soffitto). Suona stonato perciò il raffronto, che pure tenta spesso esperti e profani, tra pugili di epoche diverse. La domanda non è se Marciano batterebbe i campioni di adesso, ma se questi batterebbero lui proiettati negli anni Cinquanta.

Eppure a un quesito del genere si cercò risposta “scientifica” quando Rocky, dopo avere difeso la corona con Archie More nel ‘55, si era ormai ritirato da quattordici anni. Lui o Muhammed Ali. Chi era il più grande. Il picchiatore bianco o il danzatore nero. L’italoamericano modello di integrità e integrazione o il nuovo campione convertito all’Islam e spogliato del titolo perché si rifiutava di combattere in Vietnam. E’ il 1969 quando all’agente pubblicitario Murray Woroner di Miami balena l’idea di ricreare il grande combattimento al computer: i due pugili accettano e registrano assieme 75 round per inscenare tutte le possibili sequenze, che dovranno essere ricombinate dalla macchina. Si picchiano per finta, ma non del tutto, perché quando Ali volutamente o per caso si ostina a spostare il parrucchino di Marciano, che è anche dimagrito 23 chili per ringiovanire, Rocky si irrita e affonda i cazzotti. Il Superfight diventa un film che si proietterà nei cinema e fino al momento della prima tutti ignorano a chi il computer abbia decretato il successo, perché sono stati simulati diversi finali. La pellicola esce nelle sale a gennaio del 1970: Ali si arrabbia quando scopre che il soccombente è lui per ko (ma nella versione proiettata in Europa le sorti erano inverse). Rocky invece non ne seppe niente perché intanto non c’era più: il 31 agosto del ‘69, serata di maltempo e vigilia del suo quarantaseiesimo compleanno, si schianta su un prato dello Iowa sul Cessna che lo riportava a casa per tagliare la torta.

Dal giorno del ritiro si era impegnato in una carriera di opinionista e in tante attività imprenditoriali in cui se la cavava bene, sfruttando il nome per concludere affari ma con una diffidenza così grande per le banche che i contanti li teneva sotto il mattone non soltanto per dire, dentro i lampadari, sugli sciacquoni e in cento altri nascondigli come aveva fatto da ragazzo assieme a due amici, quando avevano vinto 500 dollari al gioco e cambiavano, ogni giorno, collocazione al tesoro. Se lo invitavano in tv si presentava in t-shirt e blue jeans costringendo le produzioni a comprargli un abito (che si teneva). Però prestava i soldi agli amici in difficoltà senza chiedere la ricevuta. Diffidava dei pezzi di carta e credeva nella parola, o nel deterrente del Suzie-Q che metteva sempre paura.

E’ su YouTube il Superfight con Ali, ma che tristezza; e c’è persino la sfida incestuosa tra Rocky Marciano e Rocky Balboa, pugile vero e pugile finto, realtà e cinema che s’incontrano senza essere veri né falsi. Però ci sono pure i filmati in bianco e nero dei match del campione, dove quest’abruzzese nato in America picchia e incassa senza troppo pensare. Incassa e picchia e vince sempre. Anzi, non perde mai.

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