Foto Epa, via Ansa

Glasgow 2023

Kopecky e la vittoria del Mondiale di ciclismo femminile: l'arte della serenità

Giovanni Battistuzzi

È quando la bicicletta è diventata il veicolo per seminare i problemi della vita di tutti i giorni che Lotte ha deciso che non poteva abbandonarla. L'anno difficile della campionessa belga prima dei campionati del mondo che l'hanno vista primeggiare sia su pista che su strada

Ha guardato la maglia da campione del mondo, quella con i colori dell’iride sul petto, con due occhi orgogliosi e felici, compiaciuti per quanto aveva appena fatto. Soprattutto sereni. Lotte Kopecky l’ha indossata, se l’è sistemata addosso, ha sbirciato la medaglia d’oro con pacifica flemma. La conosceva già. Ne aveva già messe al collo due sul podio del Sir Chris Hoy Velodrome: quella dell’Eliminazione e quella della Corsa a punti (oltre a quella di bronzo nell’Omnium). Quella che aveva solo sbirciato però era più pesante. E non c’entravano i grammi, era questione di aspettativa. Su pista il Belgio è abituato a vincere, una più o una meno fa poca differenza, soprattutto da quando c’è lei. Su strada no. Nella prova in linea il Belgio mancava dal gradino più alto del podio dal 1973, dal successo di Nicole Vandenbroeck. Erano anni di immediato post pionierismo per il ciclismo femminile (la corsa riservata alle donne era stata disputata per la prima volta in un Mondiale nel 1958). Una vita fa. Lotte Kopecky un anno fa era riuscita a riportare il Belgio sul podio, seconda, dopo 28 anni (nel 1994 Patsy Maegerman aveva conquistato l’argento a Capo d’Orlando). C’era un intero paese ad attendersi un miglioramento, quasi a pretendere l’oro. In Belgio il ciclismo femminile è seguitissimo, l’attenzione mediatica è alta, la gente aveva pazientato 51 anni, si augurava una soddisfazione.

 

Foto Epa, via Ansa
   

È arrivata. E alla maniera di Lotte Kopecky: all’attacco, prendendosi carico da sola della propria sorte, senza nessuna paura di scattare e faticare, correndo piuttosto il rischio di saltare, di trovarsi con meno energie delle altre, ma cercando di imporre sempre il proprio volere senza mai accettare passivamente quello altrui.

È arrivata, poteva non arrivare.

È quando la bicicletta è diventata il veicolo per seminare i problemi della vita di tutti i giorni che Lotte Kopecky ha deciso che non poteva abbandonarla, che non poteva nemmeno dire basta con il ciclismo. E sì che ci aveva pensato, aveva quasi preso la decisione. Quasi. Perché aveva sentito subito un malessere che le stringeva il petto a dire “ora basta, ora è finita”. Un malessere diverso dagli altri malesseri. Differente dal malumore per le corse andate male, dalle preoccupazioni per i problemi della persona a cui voleva più bene. Differente dalla disperazione per la perdita del fratello. Seppe era morto in primavera. Seppe era la ragione che l’aveva spinta a pedalare, a correre. Voleva essere come lui. E lui non c’era più. Aveva detto basta. Poi quel malessere così diverso dagli altri. È bastato un giorno senza bicicletta per capire cos’era. Mancanza. Non poteva continuare senza. È tornata a pedalare spinta dalla rabbia. Di rabbia, furente, ha staccato tutti alla Danilith Nokere Koerse pochi giorni dopo la morte del fratello. Poi la rabbia è evaporata, è rimasta la consapevolezza della profonda pace che le lasciava dentro il pedalare, del gran piacere che provava a muovere i pedali della bicicletta.

   

Foto Epa, via Ansa
    

Orgoglio, paure, volontà di vincere, timore di non farcela, rabbia, tutto è sparito lasciando spazio a un’insperata serenità. Il divertimento, la gioia dell’andare in bici ha travolto tutto. Ha archiviato quanto era successo. “È stato un anno difficile. Ho passato un inverno a lavorare duramente. Mi aspettavo tanto, poi è successo quello che è successo. E quando accadono queste cose, può andare in due modi: puoi stare a casa e sederti sul divano oppure uscire e finire il lavoro iniziato. Ho scelto la seconda”, ha detto a fine gara, con le lacrime agli occhi e la voce rotta dalla commozione. “Ero rilassata prima della gara. Sapevo di essere una delle favorite, forse la favorita. Non ci potevo fare niente però. Ho imparato che agitarsi non fa cambiare le cose”, ha sottolineato. “Potevo iniziare a stressarmi così da precipitare in una spirale discendente. È già successo, mi è successo. Più ti trovi in queste situazioni più riesci a gestirle”. Poi serve ricordarsi del perché si pedala, “del divertimento e della gioia che regala. In fondo pedalo per questo, serve tenerlo sempre a mente”.

Lotte Kopecky s’è ritrovata stesa nel baratro, ha visto tanto di quello che aveva attorno infrangersi. S’è guardata attorno in un buio fittissimo, rischiarato soltanto da un fascio flebile di luce. Il solito, quello di sempre, ma che nel tempo s’era disabituata a vedere come tale. Si è rimessa in sella togliendosi di dosso la missione del vincere, di portare sulle spalle e sulla maglia un intero paese. E fregandosene di tutto questo si è ritrovata vincente, soprattutto serena. Senza ansie, felice di pedalare.