"Su una bicicletta ho sognato e mi sono divertito". Intervista a Mario Maino

Marco Pastonesi

Ai Mondiali del 1962 vinse la medaglia d'oro nella cento chilometri a squadre nonostante si sia ritirato. Per decenni quel ritiro fu un mistero, oggi l'ex professionista ci racconta cos'era successo quel giorno

Mondiali del 1962. Cento chilometri a squadre. L’Italia, maglia azzurra, con Danilo Grassi, Mario Maino, Antonio Tagliani e Dino Zandegù. Maino: “Pronti, via, a tutta. Cambi regolari, velocità forte, ritmo costante. Trenta secondi di vantaggio. Un minuto di vantaggio. Forse di più. Finché, improvvisamente, inspiegabilmente, mi scollegai, mi spensi, mi fermai. Scesi dalla bici e salii sull’ammiraglia. Gli altri tre si fecero in quattro. E vinsero davanti a Danimarca e Uruguay. All’arrivo Elio Rimedio, il commissario tecnico, ai giornalisti spiegò che uno spettatore mi aveva tirato un secchio d’acqua, e che l’acqua, o forse il secchio, qualcosa mi aveva inceppato. Ma non era la verità. La verità non la conoscevo neanch’io”.

Sessantuno anni dopo, Maino racconta la verità: “Quel giorno, mentre io correvo a Roncadelle, la mia famiglia si trovava a casa, a Novoledo di Villaverla, nel Vicentino. Mio nipote Agostino, il figlio di una sorella, voleva sapere della corsa. Accese la radio. Ma la manopola era difettosa. Ci fu un contatto, un cortocircuito, una scarica. Agostino rimase attaccato alla corrente elettrica. Mia sorella cercò di staccarlo. Ma rimase attaccata anche lei. Agostino venne folgorato, mia sorella si salvò. E fu in quel momento – credo – che io, a distanza fisica ma non emotiva, sensitiva, sentimentale, mi scollegai, mi spensi, mi fermai”.

La notizia, piano piano, sotto sotto, trapelò e si diffuse. Ancora Maino: “All’inizio non volevano dirmi nulla. Poi Rimedio mi rivelò l’incidente. Dopo la cento chilometri a squadre, avrei dovuto correre anche la prova in linea individuale. L’unico del quartetto a doppiare. Rimedio mi disse di fare solo quello che mi sentivo. E io preferii andare a casa”.

Famiglia contadina (“Poveri, semplici, ma sempre dignitosi”), sesto di undici (“Sei maschi e cinque femmine”), quinta elementare (“Poi subito a lavorare: pittore, nel senso dell’imbianchino”), educazione religiosa (“Facevo anche il chierichetto. I nostri valori: ubbidienza e, soprattutto, rispetto”), Maino cominciò a correre per caso, per sfida, per gioco: “La domenica, dopo la messa, con gli amici, sette-otto, su per il Costo di Asiago. Li staccavo, li aspettavo alla barricata, li staccavo ancora, li aspettavo alla barricatella, li staccavo definitivamente. E avevo una bici normale. Un giorno mio cugino Martino, con tre suoi amici, tutti giovani corridori con bici da corsa, mi propose di uscire insieme. Un giro con una salita sterrata di quattro-cinque chilometri verso Recoaro. Loro tre davanti, io sempre quarto. Finché uno di loro mollò e io scalai terzo. Finché uno di loro mollò e io scalai secondo. Finché, prima della cima, scattai e staccai anche mio cugino Martino. Che alla fine, piangendo, mi disse che avrei dovuto correre”.

E qui cominciò l’avventura: “Già al secondo anno di allievo. Pensò a tutto proprio Martino. Mi procurò una bici in prestito, piccola ma da corsa. Mi procurò anche maglia e calzoncini, della sua squadra di Schio. La seconda corsa, la Bassano del Grappa-Campo Solagna, una classica, davanti da solo c’era Guido De Rosso, che sarebbe diventato anche campione italiano tra i professionisti, dietro un gruppetto di quattro, e c’ero anch’io. Sul percorso, su una Guzzi, si era appostato il direttore sportivo della squadra di Schio. Mi vide con la maglia della sua società, ma non mi conosceva. All’arrivo, dov’ero giunto secondo, mi domandò: ma chi sei?”.

Campione del mondo nel 1962, vicecampione del mondo nel 1963, vincitore ai Giochi del Mediterraneo nel 1963, sempre nella cento chilometri, secondo al Tour de l’Avenir nel 1962, professionista dal 1964 al 1967 (Cynar, Bianchi e Max Meyer): “La carriera condizionata da una caduta, una frattura al ginocchio trascurata, un’operazione non riuscita. Un secondo di tappa al Giro d’Italia, battuto in volata da Nino Defilippis. Ma nessun rimpianto. Perché ho sognato e mi sono divertito, perché ho girato paesi e conosciuto persone”. Un corridore come Meo Venturelli, per esempio. “Era il 1965. Compagni nella Bianchi, lui capitano, io gregario. Milano-Sanremo: si ferma sul Turchino, fa la pipì, rientra in discesa, cade, batte la testa, abbandona. Giro d’Italia: si fa pagare in anticipo, poi parte ma non è allenato, si ferma, torna in albergo, il direttore sportivo gli sequestra la valigia per riprendersi i soldi, non si trovano, lui immobile e muto, finché si toglie una scarpa, e dalla scarpa toglie il tacco, e dal tacco estrae le banconote”.

Maino ha 82 anni: “Il ginocchio mi avrebbe sempre dato problemi. E l’età non aiuta. Esami, test, visite, poi l’altro giorno il medico mi ha spiegato: la sua medicina ideale è la bicicletta. Proprio quello che avrei voluto sentirgli dire”. E’ una bicicletta elettrica. Ma dà scariche di umanità.

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