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Federico Bahamontes non scavalcherà più le montagne

Giovanni Battistuzzi

È morto lo scalatore spagnolo che nel 1959 vinse il Tour de France. Le sue imprese montane, i suoi silenzi e quella maglia gialla portata a Parigi nel nome di Fausto Coppi

Federico Bahamontes era secco e coriaceo come certi pinnacoli dolomitici e faceva uno strano effetto vederlo pedalare. Sembrava che in sella non ci sapesse stare. Seduto a spingere sui pedali teneva le ginocchia larghe e i gomiti ancor più all’infuori quasi a voler tenere lontani gli altri corridori del gruppo. Non era fatto per stare in gruppo Federico Bahamontes, troppe biciclette attorno lo innervosivano. Per questo aspettava l’occasione giusta per rimanere solo e l’occasione giusta era sempre la salita. C'aveva pure il cognome giusto – quello materno perché quello paterno era un comunissimo Martín – per fare quello che gli riusciva meglio: scalare le montagne in bicicletta. Era lì che abbandonava la sella e si alzava sui pedali e in piedi sui pedali era tutta un’altra cosa. Era un piacere vederlo pedalare quando la strada saliva, la sua pedalata si ingentiliva, diventava elegante, piacevole alla vista, quasi ipnotica. Soprattutto efficace, tremendamente efficace. Stargli vicino era difficile, davanti a volte impossibile. Non scattava quasi mai Bahamontes, saliva e accelerava il ritmo e uno a uno li staccava tutti. Fausto Coppi la prima volta che lo vide pedalare disse di aver visto un uomo levitare verso la cima del colle, non pedalava: ascendeva. Era la primavera del 1954 chiese alla Bianchi di averlo come compagno di squadra. I dirigenti tergiversarono troppo, Bahamontes vinse la classifica degli scalatori al Tour de France (che ancora non assegnava la maglia a pois) e firmò con la squadra che gli offrì più soldi. Bahamontes e Coppi corsero assieme solo cinque anni dopo, nel 1959 con la maglia della Tricofilina-Coppi sotto quella della Nazionale spagnola (il Tour quegli anni si correva per compagini nazionali). Bahamontes vinse il Tour de France, primo spagnolo a riuscirci.

  

Federico Bahamontes è morto questa mattina a 95 anni.

 

In un’intervista di qualche anno fa a Marca aveva detto di essere stupito di aver vissuto così a lungo: “Da piccolo ero cagionevole di salute, anche quando diventai corridore non ero quello con la scorza più dura. A volte quel che si crede reale è solo apparente. Si vede che pedalare mi ha temprato”.

 

   

C’è sempre stato nella vita di Federico Bahamontes un doppio registro tra apparenza e realtà. A partire dal nome. Per lo stato, soprattutto per l’esercito, Federico Bahamontes non è mai esistito. Esisteva un Alejandro Martín Bahamontes, nato nello stesso luogo e nello stesso giorno del ciclista: Toledo, 9 luglio 1928. Federico arrivò dopo, qualche anno dopo. Colpa – o forse merito – di suo zio: "Mi hanno battezzato Alejandro, ma mio zio, che era più giovane di mio padre ma con un carattere ben più forte, un giorno ha detto: 'Questo ragazzo non può non portare il mio nome'. E hanno cominciato a chiamarmi Fede anche se io ero Alejandro”, raccontò a Marca nel 2009. Per tutti divenne solo Federico. Poi arrivò l’esercito che lo reclamava per la leva a ricordare a tutti il nome. “Quando l’ufficiale passò per casa a cercare Alejandro Martín perfino mia madre rispose che non c’era nessun Alejandro. Rischiò l’arresto”. Pure nei “passaporti, durante la mia carriera da sportivo, c’era scritto Federico Martín Bahamontes. Martín però non mi ci hanno mai chiamato: di Martín ce ne erano tanti in Spagna, di Bahamontes solo io. Quando i giornali hanno iniziato a scrivere delle mie prestazioni in bicicletta scrivevano di Federico Bahamontes. Un giorno chiesi a mio padre se ciò era un problema. Rispose: ‘Tu sei comunque Fede’. A mio padre non sono mai interessate questo genere di cose”.

   

L’unico a chiamarlo Ale era l’amico di sempre: Manuel Lopez. Crebbero assieme, assieme impararono a pedalare. E mica per diletto, per necessità. C’erano pochi soldi per entrambi e toccava trovare il modo per aiutare a portare a casa cibo. Iniziarono dando una mano all’alimentari del loro quartiere, poi passarono a rubare la frutta, sempre in bicicletta. Durò poco. Li beccarono e, vista la velocità con la quale erano soliti scappare, al fruttivendolo venne un’idea: vi pago un soldo a cassa trasportata. Accettarono, l’alternativa era finire davanti a uno sbirro. Trasportavano casse anche da cinquanta chili e per decine di chilometri. Il lavoro fruttava il giusto, per anni si accontentarono.

  

Un giorno, consegnate le casse, si trovarono in scia a un paio di professionisti. In scia in pianura, in scia in salita. Si iscrissero a una corsa al paese vicino: finirono primo, Manuel Lopez, e secondo. Si misero in tasca in un sabato pomeriggio gli stessi soldi di una settimana di lavoro. Fu allora che capirono che a pedalare si facevano più soldi in corsa che con la verdura. Manuel era potente e veloce, Federico era secco e scattante. Si dividono i traguardi: quando la strada sale il primo aiuta il secondo, quando è piana il secondo il primo. Si fecero un bel gruzzoletto.

 

Federico aveva già ventitré anni però e non aveva mai corso davvero se non in garette amatoriali. Quando Patricio Gomez Lupan gli chiese se voleva provare davvero a fare il corridore quasi non ci credeva. Un anno di apprendistato tra i dilettanti, un anno da isolato, poi il primo contratto da professionista nel 1954. E subito miglior scalatore al Tour de France.

 

In salita volava Federico Bahamontes, era d’altra parte “L’Aquila di Toledo”, il problema era la discesa. Se guadagnava minuti su tutti quando la strada saliva, ne perdeva altrettanti quando si tornava a valle. La sua fortuna fu incontrare in Faema nel 1955 Miguel Poblet, uomo veloce e abilissimo discesista. Fu il campione spagnolo (vinse due volte la Milano-Sanremo) a insegnargli a non attaccarsi ai freni mentre scendeva dalle montagne. Ci mise due anni a migliorarlo, “ma senza il contributo di Gilbert Bauvin, che fu nostro compagno nel 1956 alla Saint-Raphaël non ci sarei riuscito. Bauvin era un discesista straordinario, uno dei migliori di sempre. Fu lui che convinse Federico a non aver paura della velocità. Rimase un pessimo discesista Fede, ma quantomeno Bauvin lo rese decente”, raccontò Poblet a Marca nel 2008.

 

Fu grazie a Poblet e Bauvin che Federico Bahamontes diventò un corridore che poteva dire la sua anche in classifica generale dei grandi giri. Nel 1956 terminò al quarto posto sia la Vuelta che il Tour de France. L’anno successivo salì sul podio, secondo, nella corsa a tappe del suo paese.

  

Poi arrivò Fausto Coppi. Nella primavera del 1959 il Campionissimo si trasferì quasi un mese a Toledo per allenarsi con lo spagnolo. Un mese nel quale gli disse sempre e soltanto una cosa: “Te puoi vincere il Tour de France e lo puoi fare perché non ho mai visto nessuno pedalare in montagna così. Nemmeno Gino Bartali, nemmeno Charly Gaul”. Disse Bahamontes, ricordando quel mese passato assieme a Coppi: “Non mi disse mai: ‘Nemmeno come me’. Dopo Bartali e Gaul faceva solo un sorriso. Me lo faceva credere e a me bastava. Lui era Fausto Coppi, era il corridore più forte della storia, e parlava a me. E mi diceva che ero forte in salita, più di Bartali e più di Gaul. Andai al Tour con la convinzione che potevo vincere. E vinsi. Senza Fausto Coppi però non avrei mai vinto la maglia gialla. Infatti non vinsi più un Tour. E sì che nel 1960 e nel 1963 andavo più forte che nel 1959. Fausto però non c’era più, era morto. E con lui non c’erano nemmeno le sue parole, quelle che mi facevano andare più forte, quelle che non mi facevano avere paura”, raccontò all’Equipe.

  

Anche le parole di Federico Bahamontes non ci sono più. Sono sempre state poche, mai banali. Non poteva essere altrimenti. Federico Bahamontes non è stato un corridore banale, non è stato un uomo banale. Finita la carriera da corridore iniziò quella da meccanico. Una bottega a Toledo dentro la quale bastava uno sguardo per capire il problema e poco tempo per risolverlo. Dove c’era più silenzio che voce. Il bello del pedalare è anche il potersi muovere nel silenzio. Quello che Federico Bahamontes ha sempre portato con sé dietro a un sorriso timido, impacciato e affettuoso.

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