Antonio Tagliani, un Ganna 60 anni prima di Filippo Ganna

Marco Pastonesi

Fu medaglia d'oro nel quartetto della cento chilometri ai Mondiali di Salò del 1962. “Il ciclismo mi ha insegnato a stare al mondo: spingere, tirare, obbedire, arrivare, soffrire”. “Mi sarebbe piaciuto provare a battere il record dell’ora"

Era il Ganna di 60 anni fa. Un metro e novanta. Passistone, crononoman, inseguitore. Statuario. Un fisico rubato all’agricoltura. Una forza della natura. E campione del mondo. Antonio Tagliani faceva parte di quel quartetto della cento chilometri che, nel 1962, ai Mondiali di Salò, conquistò la medaglia d’oro: “Elio Rimedio, il commissario tecnico, convocò Grassi, Maino, Zandegù e me. Il quartier generale a Gardone Riviera, la preparazione lunga due mesi, gli allenamenti e le ricognizioni sul percorso di Roncadelle tutti i giorni. Avremmo potuto farlo a occhi chiusi”. Quel giovedì 30 agosto: “Faceva caldo. Dopo 10 chilometri Maino si bloccò. Rimanemmo in tre. Ma ci moltiplicammo, ci ingigantimmo. E vincemmo. Alla grande”.

Del 1941, famiglia contadina di Bedizzole, nel Bresciano: “Poca terra, due o tre bestie, e si doveva campare così, ma era dura. Quattro fratelli e una sorella, io il secondo. La passione per il ciclismo cominciò con mio fratello maggiore Gianfranco, meccanico di biciclette. Se ne costruì una, telaio normale, manubrio da corsa, ma lui non andava, ci provai io. La prima corsa ad Alfianello: terzo. La seconda corsa a Chiari: fuga a due, l’ultima curva caddi, secondo. La prima vittoria il secondo anno da allievo”.

Fu Gino Riccardi, il suo allenatore alla Erbitter di Gavardo, a ribattezzarlo “l’Airone di Bedizzole”: “Diceva che avevo qualcosa dello stile di Coppi. Troppo buono”. Altri si limitavano a definirlo “il gigante buono”: “C’erano corridori che mi arrivavano al petto”. Nel 1960 fu riserva alle Olimpiadi di Roma ed esordì all’estero: “Con Mario Officio, milanese, stradista e pistard, alla Rund di Berlino, una specie di campionato europeo con tutti i migliori corridori, 500 partenti, 240 chilometri, arrivai terzo”.

Dopo il Mondiale del 1962, la consacrazione nel 1963: “Alla Praga-Varsavia-Berlino, la Corsa della Pace, in maglia azzurra vinsi due tappe, la Praga-Brno e la Magdeburgo-Berlino, i migliori corridori dell’Est, ed erano professionisti. E secondo al Gran premio Liberazione a Roma nel 1963. E in coppia con Ugo Aldovini primo nel Trofeo Argo nel 1961, che era il Baracchi dei dilettanti”. Poi ancora i Mondiali della cento chilometri del 1963: “In cinque per quattro posti. La vigilia della corsa, alle dieci di sera, Rimedio mi disse che non avrei corso. Senza un perché. Ci rimasi malissimo”.

Nel 1965 Tagliani passò tra i professionisti: “Alla Bianchi-Mobylette. Ritrovai Zandegù, che era un simpaticone, scoprii Venturelli, che era più matto di un cavallo, conobbi Baffi, che la sapeva lunga. Era lui, Baffi, a insegnarci a correre. Non Pinella De Grandi, che dev’essere stato più bravo come meccanico di Bartali e Coppi che non come nostro direttore sportivo. Non ci diceva mai niente, e io avevo ancora tutto da imparare”. Pinella lo convocò per il Giro d’Italia: “Mi fermai alla settima tappa, quella di Maratea, per una gastrite. I primi della squadra che arrivavano al traguardo erano anche i primi ad andare all’albergo e i primi a farsi bagno o doccia. Con l’acqua calda. Ma siccome io non ero fra di loro, bagno o doccia dovevo farli con l’acqua fredda, e così mi presi la gastrite”.

Tagliani concluse la stagione con i campionati italiani su pista: “Inseguimento. Eliminato da Leandro Faggin, uno specialista, un campione. Feci quarto. Alla fine della stagione nessuno mi venne a cercare e rimasi a piedi. Scrissero: ‘L’Airone ha chiuso le ali’, come per Coppi quando era morto. Tornai a fare il contadino e il manovale, poi aprii un negozio di antiquariato, la mia fortuna. Ma con il ciclismo avevo chiuso. Né più corse né più bici. La Bianchi, che ormai sarebbe da antiquariato, sta in soffitta. Quella che usavo già da dilettante. Per sistemarla o perfezionarla andavo in bici a Milano, me l’aggiustavano, e tornavo in bici a casa, 125 più 125, totale 250 chilometri”.

Tagliani dice che “il ciclismo mi ha insegnato a stare al mondo: spingere, tirare, obbedire, arrivare, soffrire”. E ricordare: “Il più elegante? Anquetil. Il più potente? Baldini. Il più forte? Venturelli. L’alimentazione? Risottino in bianco, bistecchina con insalatina, poco olio e niente pane. Alla Corsa della Pace mangiavamo tutti insieme e vidi i corridori degli altri paesi farsi, a testa, mezzo chilo di pasta con il sugo di pomodoro. Avevano già capito tutto”. Il ciclismo gli ha anche regalato emozioni e racconti. “Se vai al Giro del Casentino, mi disse un ufficiale, ti do 15 giorni di licenza. Ci andai, vinsi tre tappe e la classifica finale”. “Pierino Baffi ospitò Meo Venturelli due mesi perché non si distraesse – donne e motori – prima del Giro del 1965. Ma dovevo tenerlo d’occhio, mi confidò, perché era attratto da mia moglie”. “A Leno vinsi tre corse, la prima fra gli juniores, la seconda e la terza fra i dilettanti, dopo la terza il sindaco mi diede la cittadinanza onoraria”. “Mi sarebbe piaciuto provare a battere il record dell’ora. Come Ganna. Forse ero il Ganna di quei tempi, ma non con quei tempi”.