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Quant'è difficile avere fair play

Giovanni Battistuzzi

A Fiesole c'è stata la ventisettesima edizione del premio internazionale Fair Play Menarini. Giancarlo Antognoni, Federica Pellegrini, Tommie Smith, Javier Zanetti ci raccontano quanta pazienza ci vuole per essere sportivi

Si fa presto a dire sportività, lealtà in campo, rispetto di regole e avversari. Ci si cerca sempre di appuntare alla giacca certi valori, quelli che ci devono essere, che è giusto ci siano. Poi però la carne è quella che è, spesso debole, anche se i muscoli sono sodi, atletici, e lo spirito è quello giusto. Il fair play quando c'è è applaudito: bel gesto, dicono. Quando non c'è pure, anche se in maniera meno plateale, almeno all'inizio, prima di diventare simbolo. Soprattutto quando si trova, in un modo o nell'altro, una motivazione. Come la Mano de Dios, diventato disegno da magliette, foto da poster, icona maradoniana per eccellenza. Scorretta sì, sleale pure, ma l'Argentina giocava contro l'Inghilterra e la questione Falkland/Malvinas, quindi pace e bene così, nonostante tutto. O come l'attacco al Giro d'Italia 1957 di Luison Bobet, Ercole Baldini, Gastone Nencini e Miguel Poblet mentre Charly Gaul faceva la pipì a bordo strada, colpevole a dir loro, soprattutto di Bobet, di non aver rispettato una regola non scritta del ciclismo di allora: chi si gioca il primo posto in classifica si ferma a fare i bisogni assieme. Gaul li aveva visti, li aveva scherniti, si era fermato una decina di chilometri dopo da solo. Era in maglia rosa, perse il Giro. Giusto o sbagliato, nel ciclismo, per molto tempo, non è mai stato reato. Sarà che, come scriveva Rino Negri, il fair play “è prerogativa dei nobiluomini, di chi ha da che sostentarsi e in abbondanza”.

Bella faticaccia il fair play, o meglio il resistere alla tentazione di non averlo. Che si sa che alla fine conta solo la vittoria ed è quella che resta, che permette di essere ricordati. Non ce li si ricorda quasi mai i secondi e i terzi classificati, figurarsi gli altri. I vincitori sì e indipendentemente dal modo in cui hanno vinto. Si perdona sempre tanto ai vincenti, a quelli che perdono un po' meno. Bella faticaccia il fair play, soprattutto quando le cose non vanno bene. O anche quando le cose vanno bene e si vorrebbe continuare così. Soprattutto quando qualcuno ne ha un po' meno di te. D'altra parte la tentazione di fare altrettanto è parte dell'animo umano. Ed è in quei momenti che “bisogna avere equilibrio. E non è semplice, non è mai semplice, perché a volte...”. Javier Zanetti di botte ne ha date e ne ha prese tante in ventidue anni di carriera (succede se si gioca sulla fascia partendo dalla difesa), ma sempre in modo garbato, con classe, dicono i più. E con lealtà, aggiungono. Javier Zanetti era a Fiesole a ritirare il premio internazionale Fair play Menarini (categoria “Personaggio mito”), che premia quegli sportivi capaci di rispettare l'avversario, le regole, gli spettatori e soprattutto evitare di barare. Perché se anche il risultato sportivo è importante non può essere giusta né giustificabile una condotta scorretta. Perché non ci può essere vittoria senza grinta e voglia di vincere, ma questa non deve mai oltrepassare le regole”, dice Ennio Troiano, membro del cda della Fondazione Fair Play Menarini.

Giocatore corretto lo è sempre stato Javier Zanetti, “ma a volte era difficile”, ammette al Foglio l'ex capitano dell'Inter. “Perché quando si gioca c'è tanta tensione e le pulsazioni sono a mille”. Ed è lì che entra il carattere, la fortuna di averlo cheto “e io caratterialmente sono uno che riesce a stare calmo”.

Di botte ne dava e ne subiva Javier Zanetti in campo, un rapporto biunivoco. “Quand'è così è più semplice”, sottolinea. Ben altra cosa è quando se ne prende di più di quante ne si dà. Che si può essere anche calmi e rilassati, “e io caratterialmente sono calmo e rilassato, ogni tanto però... anche perché quello che subivano gli attaccanti ai miei tempi non è nemmeno paragonabile agli interventi del calcio moderno”, dice Giancarlo Antonioni. Non ha mai ridato le botte che ha subito l'ex numero 10 della Fiorentina, “anche perché avevo buoni gregari che mi difendevano, loro sì erano giocatori nati per questo”. È cambiato molto da allora, dagli anni Settanta-Ottanta: “Oggi lo stato d'animo dei giocatori è diverso da quello con il quale scendevamo noi in campo. Oggi scendono molto più arrabbiati in campo, la competizione è maggiore e quindi si può giustificare qualche scorrettezza in più”.

Perdono quindi, perché serve perdonare, serve soprattutto sapersi perdonare, “il fair play interiore”, lo chiama Tommie Smith, l'uomo del 19”83 alle Olimpiadi di Città del Messico 1968, allora record del mondo, l'uomo del pugno chiuso alzato verso il cielo messicano, soprattutto americano, sul gradino più alto del podio olimpico. “Perché una caduta ce la possiamo avere tutti, ma non sempre una caduta coincide con l'essere sleale”. Ci vuole pure flessibilità con il fair play. “Ed è difficile, terribilmente difficile essere uomini o donne tutti d'un pezzo”.

Fair play sì, fair play sempre, dicono tutti i premiati, ma c'è sport e sport e per qualcuno è più facile. Dice Federica Pellegrini: “Il nuoto non essendo uno sport di contatto rende più semplice mantenere la calma, nuotando in corsia più di tanto non si può fare e questo ti rende più facile il non cadere in tentazione”. Potere della solitudine.