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Il Foglio sportivo

Il presidente federale Stefano Mei ci spiega i segreti dell'atletica italiana

 Fausto Narducci

Dalle sconfitte alle vittorie. E ora “non ci fermiamo più. Stiamo migliorando a tutte le età”, ci dice il numero uno dell'atletica azzurra

Stefano Mei, 60 anni, ha quasi la stessa età della Coppa Europa nata nel 1965. Eppure non l’aveva mai vinta neanche a livello individuale, con sole due partecipazioni da atleta e il massimo di un terzo posto nei 1.500 nel 1985. A Chorzow, dopo aver sfiorato per soli 2 punti e mezzo il successo due anni fa, ha centrato lo storico trionfo al primo mandato da presidente federale: 24 punti di vantaggio sulla Polonia seconda e 16 podi in 37 gare con 7 vittorie individuali!

Da due anni e mezzo, da quando Mei si è insediato come presidente della Fidal, nell’atletica continuiamo a ripetere “mai visto”. Ma poi si fa fatica ad abbinare il nome di Mei a questa rinascita. “Quando ci sono io di mezzo stranamente le cose positive diventano merito di altri e quelle negative sono colpa mia. Io, quando ho perso le elezioni presidenziali del 2016, mi sono fatto da parte. Stupisce che le critiche vengano ora da persone che in questo ruolo, sia tecnico sia dirigenziale, hanno fallito miseramente, hanno prodotto il nulla cosmico. È chiaro che c’è sempre qualcuno prima di te che può arrogarsi meriti nei successi ma è un dato di fatto che nelle precedenti gestioni i risultati non arrivavano. Invece da due anni e mezzo continuiamo a migliorarci e non ci fermiamo più a tutti i livelli di età”.

Eppure le critiche non mancano.

“Il fatto è che io da ex atleta e campione europeo dei 10.000 so perfettamente i perimetri entro cui muovermi perché tutti possano svolgere bene il proprio ruolo. Non interferirò mai negli aspetti tecnici anche se per statuto sono il capo del settore. Anche se hanno voluto giocare con il titolo di un giornale, io il dt Antonio La Torre non l’ho mai messo in discussione. È vero: me lo sono trovato lì, come era già lì da vent’anni il responsabile giovanile Tonino Andreozzi, ma io le persone brave non le cambio. Non sono pazzo. Sorprende piuttosto come la gente voglia creare una realtà verosimile: sembra vera ma i concetti sono tutti sfalsati”.


Cosa è cambiato allora rispetto a prima?

“Che c’è un ex azzurro presidente. Io lo so che se un atleta va in pista o in pedana cerca sempre di dare il meglio, non c’è bisogno di cazziarlo. Vi faccio l’esempio della discobola Daisy Osakue che dopo il secondo posto in Coppa è venuta a ringraziarmi per come l’avevo trattata un anno fa quando aveva fallito la stagione. Piagnucolava, ma io le dissi ‘dove pensi che ti porti questa arrabbiatura. Le sconfitte fanno parte dello sport. Futtitenne…”. Così anziché abbatterla l’ho stimolata”. 


In squadra si vede più leggerezza, anche perché sono aumentati gli investimenti. 

“Questo è il secondo punto decisivo. Tutti si sentono le spalle coperte perché abbiamo cambiato il verso di questa federazione. Al settore tecnico prima si toglieva, ora si dà. Nel 2022 abbiamo aumentato gli investimenti per tecnici e atleti di 2,8 milioni di euro arrivando a un esborso di quasi 8 milioni. Certo abbiamo dovuto togliere da altre parti ma ottimizzando le spese e applicando criteri meritocratici anziché verticistici per i rimborsi alle società”.


Però anche dopo lo straordinario Golden Gala si è parlato soprattutto delle cose negative. Il caso Tamberi e Mennea per esempio

“Gimbo a Chorzow ha esternato un malessere, secondo me nel momento sbagliato: doveva aspettare lunedì per non togliere niente a ragazzi che non vinceranno mai un’Olimpiade o un Europeo come lui. Poi mi si è chiusa la vena e ho esagerato anche io. Comunque ci siamo parlati e chiariti al 60 per cento. Non è vero che ho parlato dell’ingaggio di Firenze, ho solo detto che Tamberi si è aggiunto alla lista dei non invitati. Ma un atleta come lui ha bisogno dell’invito per venire a vedere il Golden Gala? Diverso il caso della signora Mennea che era stata regolarmente invitata e anche chiamata al telefono, senza ricevere risposta”. 


Poi c’è il caso degli Europei 2024 di Roma che la vedono ai vertici: qualcuno dice che sono a rischio, compreso il suo ruolo.

“Ci sono in effetti delle criticità legate al fatto che siamo a ridosso dell’evento. Ma nei giorni scorsi ho incontrato, insieme al presidente del Coni Malagò, il ministro Abodi e mi ha confermato il suo sostegno. Tutto è pronto, dobbiamo solo limare alcune situazioni. La formula della Fondazione che li gestisce, voluta dal dipartimento allo Sport, c’era già prima di me, non è fatta a mia immagine e somiglianza. Se vogliamo l’ho subita, ma ora non può che finire bene”. 


A parte l’incidente dell’inno anti-Juve di cui vi siete scusati anche se dipendeva dall’organizzazione, resta il fatto che i vuoti sugli spalti hanno tolto qualcosa all’impresa.

“Non sono d’accordo. Come consigliere europeo avevo fatto presente che c’erano troppe concomitanze nei Giochi Europei e uno stadio così grande non sarebbe stato riempito ma questo titolo europeo vale come quelli del calcio e della pallavolo. Anzi di più: perché l’atletica è lo sport più difficile e per questo abbiamo aspettato quasi 60 anni per vincerlo. In questi Europei ci sono 16 squadre e non è come il calcio che la più forte può restare fuori per una partita sbagliata nelle qualificazioni: la classifica finale è l’esatta fotografia dei valori in campo e noi siamo i più forti di almeno 24 punti. Non c’è nulla da discutere.


Bisogna saper vincere ma anche saper perdere, quindi?

“Da atleta ho avuto più sconfitte che vittorie e ho imparato più dalle prime che dalle seconde. L’accettazione della sconfitta è il primo insegnamento che dà lo sport. Nel momento che non l’accetti non sei sportivo. Vi lascio con questa massima su cui meditare”.

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