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Perché per il Newcastle la finale della Coppa di Lega è storica

Roberto Gotta

È dal 1955 che i Magpies non vincono un trofeo. La partita di domenica contro il Manchester United può essere il primo trofeo della nuova proprietà saudita e il ritorno dei bianconeri tra le vincenti d'Inghilterra

"Maledico ogni giorno il destino che mi ha fatto nascere donna". Parole forti, quelle pronunciate ormai 70 anni fa da Elizabeth Milburn, reduce dall’ennesima partitella con amici e parenti che l’aveva vista spiccare per trattamento di palla e determinazione. Milburn, detta Cis (diminutivo di ‘sister’) o Cissie, non si riferiva ai dolori del parto o al peso dei lavori di casa ma all’impossibilità, in quanto donna, di giocare nel Newcastle United, la squadra di famiglia: suo nonno e suo padre erano stati calciatori dilettanti e suo cugino era Jackie Milburn, leggendario centravanti dei Magpies che negli anni Cinquanta vinsero tre volte la Coppa d’Inghilterra, ultima nel 1955, anno dopo il quale non è più arrivato alcun trofeo nazionale. E anche questo aiuta a capire l’importanza della finale di Coppa di Lega di questa domenica, contro il Manchester United.

   

Cissie ha messo al mondo figli campioni: Bobby e Jackie Charlton, nati dal matrimonio con Bob, detto Boxer per via della predilezione per la nobile arte dei pugni, e del resto era stato proprio vincendo un combattimento nella piazza del paese, Ashington, che si era procurato i soldi per l’anello nuziale.

 

Ashington, che ha il record di ben tre giocatori (i due Charlton e Jimmy Adamson) cresciuti nella stessa strada e diventati Giocatore dell’anno nella massima serie inglese, Ashington che era uno dei principali villaggi minerari intorno a Newcastle, carne e sangue di un ambiente da cui sono usciti decine di calciatori ma che per alcuni decenni, un po’ per le sue caratteristiche un po’ per la sua collocazione geografica, nell’angolo nordorientale dell’Inghilterra a 450 chilometri da Londra, è parso un mondo a parte. Circa 800.000 abitanti, l’area metropolitana di Newcastle ha storicamente costruito le sue fondamenta economiche sui cantieri navali e sui trasporti marittimi, in gran parte destinati al carbone, principale ricchezza della zona: al punto che c’era un detto, taking coals to Newcastle, portare carbone a Newcastle, che equivaleva al nostro "cercare di vendere frigoriferi agli eschimesi", anche se un giorno un imprenditore americano riuscì a fare soldi proprio spedendo in città un carico in un periodo in cui, casualmente, in zona c’era uno sciopero. Al netto degli stereotipi, è vero che chi aveva sperimentato da ragazzino la vita di miniera, magari vedendo padre, zii e nonni scendere in profondità e trascorrere parte della serata a togliersi il nero di dosso, angeli con la faccia sporca ma non di terriccio, non vedeva l’ora di cambiare strada magari giocando a calcio, ma è altrettanto vero che se non era miniera era industria pesante o cantiere navale e quindi ogni località britannica ha portato con sé le motivazioni a sfuggire, quando ancora quei settori funzionavano e ancor più quando hanno smesso di respirare. E il calcio era se non altro una via di fuga accettabile: chi ha visto il film Billy Elliott, ambientato da quelle parti nei primi anni Ottanta, ha potuto vedere nella splendida interpretazione di Gary Lewis sia l’angoscia del minatore che vede sparire la propria fonte di introito sia quella del padre incapace di accettare che il figlio, invece che in miniera o sul campo di calcio, come un vero uomo e un vero proletario, cerchi il proprio futuro nel balletto. Ed è un caso, ma significativo, che alcuni anni fa l’avvocato difensore di un hooligan del Newcastle, per scagionare il comportamento del suo assistito, abbia detto "era una partita, non una lezione di balletto. L’esperienza calcio è fatta anche di questo".

   

Per molti anni, nei periodi bui della violenza intorno e dentro agli stadi, quelli del Newcastle hanno fatto paura: quando arrivavano a Londra, raccontò tempo fa un loro rivale, pareva che calasse un popolo diverso, per stazza fisica e abbigliamento, un po’ come quando scendevano gli scozzesi. Nel periodo in cui già l’hooligan medio vestiva firmato, il periodo dei casuals, a Newcastle andavano ancora di moda le giacche di jeans con toppe colorate e i giubbotti neri con ricopertura impermeabile sulle spalle, ad esempio. E furono del Newcastle, nella finale di FA Cup del 1974, i primi tifosi a indossare maglie della squadra: lo stile e l’abbigliamento ricercato, dicevano, è per rammolliti del sud, così come il tipo blando di birra. La globalizzazione purtroppo si è mangiata anche molte di queste differenze, modificando il carattere un po’ retrò e un po’ disadorno di Newcastle: un tempo capitale delle sbronze e delle bevute senza raffinatezza, dalla quale i tifosi avversari si allontanavano prima possibile una volta finita la partita, ora è addirittura una delle città all’avanguardia europea per la vita notturna, un posto insomma i cui i supporter in trasferta magari si fermano, con discrezione e senza svelare il proprio accento, a fare nottata. E a riassumere il tutto c’è la vicenda dell’Adelphi, uno dei pub più celebri del centro, situato a poca distanza dal frequentatissimo Theatre Royal: gestito a lungo da Terry Mann alias Mister Newcastle, classe 1959, che era anche… uno degli hooligan più noti, dal 2011 è passato di mano e dopo una ristrutturazione costata circa 300.000 euro è diventato il Lady Grey’s, "con l’obiettivo di attirare professionisti di giovane e mezza età che cercano un posto dove rilassarsi all’uscita dal lavoro. Cerchiamo di rilanciare la bevuta come elemento di socializzazione, non di abbruttimento come da vecchia reputazione di questa città".

   

La Newcastle moderna, dunque, cambiata in superficie e nel numero di locali di buon cibo e buon bere, miscelata a quella di un tempo, quella che assomiglia a tante città britanniche nel degrado dei fine settimana, nel contrasto tra chi può e chi non può ma ci prova comunque e a volte ne esce male. Su questo scenario complicato domina, imponente, St.James’ Park, lo stadio, situato al termine di una breve salita ai margini occidentali del centro. L’arrivo, nell’autunno del 2021, dei proprietari sauditi ha avuto un duplice effetto, quasi paradossale: da un lato, la prospettiva di un futuro di investimenti e successi ha ridato la speranza ad una tifoseria appassionata ma, come altre, mitizzata oltre i meriti; dall’altro, la scarsa popolarità globale dei sauditi stessi ha limitato il numero di tifosi neutrali disposti a salire sul carro. E dato che questi tifosi, come dimostrano le varie Manchester City, Manchester United, Liverpool e Chelsea, squadre ormai vendute al commercio estero, sono perlopiù di altri continenti, la conseguenza è stata quella di permettere al Newcastle United di rimanere un club con supporto perlopiù locale, come è giusto che sia. Ecco perché a Wembley, domenica, caleranno sì le solite orde dalla parlata anomala, magari non più suddivise in Bender Squad e Gremlins come nel periodo hooligan, ci saranno sì i soliti panzoni, magari pure a torso nudo, inquadrati dalle telecamere per rafforzare uno stereotipo collegato peraltro ad una realtà fatta di obesità anche infantile in media superiore al resto della nazione, ma sarà nella stragrande maggioranza gente che appunto viene da Newcastle. Gente che ha - come dicono lassù di chi si dirige verso sud - valicato il fiume, il celebre Tyne immortalato, anche per chi non fosse pratico del luogo, dal brano ‘Fog on the Tyne’ dei Lindisfarne, eseguito nel 1990 da Paul Gascoigne, che sull’altra riva, cioé a Gateshead, è nato. E che per molti, in eccessi, talento e furia, Newcastle e il suo spirito li ha rappresentati meglio di tutti.

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