ciclismo

L'incredibile Tour du Rwanda

Marco Pastonesi

Davide Gabburo ci racconta la corsa a tappe africana: “Da nessuna parte del mondo ho mai visto così tanta gente, tanto calore e tanto colore, lungo le strade”

Se la classifica delle corse più appassionanti potessero stilarla i corridori (un po’ come se fossero gli attori a stabilire i teatri più affascinanti o i marinai a indicare i porti più sicuri), allora la Milano-Sanremo (la primavera!) batterebbe il Giro di Lombardia (l’autunno...), il Giro delle Fiandre (il popolo!) prevarrebbe sulla Parigi-Roubaix (il pavè...), la Strade Bianche (lo sterrato!) dominerebbe sulla Liegi-Bastogne-Liegi (lo sfinimento...). E il Tour du Rwanda sarebbe in cima alla lista delle gare a tappe.

 

Quella che si sta disputando in questi giorni (dal 19 al 26 febbraio, otto tappe per 1.129,9 chilometri con partenza e arrivo nella capitale Kigali, al via 93 corridori di 20 squadre) è la quindicesima edizione ufficiale del giro africano, ma la ventiseiesima ufficiosa, comprendendo quelle prime volte in cui si conosceva la sede della partenza delle tappe ma non sempre quella dell’arrivo (un’approssimazione organizzativa che potrebbe essere trasformata in una rivoluzione geniale) o in cui il numero dei corridori arrivati all’ultima tappa era superiore al numero dei corridori partiti alla prima tappa (chi fermato dalla dogana, chi da una guerra, chi da incidenti stradali o da guai meccanici).

 

La svolta si deve a Jock Boyer, il primo statunitense a correre il Tour de France (nel 1981), collezionando 49 vittorie da professionista e partecipando a nove Mondiali (e a Goodwood, nel 1982, fu l’ultimo ad arrendersi alla “fucilata” di Beppe Saronni). Reduce da problemi e condanne giudiziarie, Boyer ricominciò a vivere (e a redimersi) in Ruanda: reclutò futuri corridori fra i garzoni del caffè, scoprì e lanciò Adrien Niyonshuti anche a livello olimpico, ricreò il Tour du Rwanda e lo lanciò nel ciclismo internazionale, inventò e fece costruire un centro ciclistico all’avanguardia mondiale nelle attrezzature (e nell’altitudine di Musanze, a quota 1850). Dieci anni che hanno cambiato il mondo della bicicletta, e un bel po’ anche quella di un paese sconvolto – per sempre – dal genocidio del 1994, un milione di morti in cento giorni, hutu e tutsi a massacrarsi con il complice silenzio planetario.

   

Quest’anno il dorsale numero 1 è stato consegnato a Chris Froome, quattro vittorie al Tour de France, due alla Vuelta di Spagna e una al Giro d’Italia, kenyano bianco, inglese naturalizzato, figura di riferimento (nonostante i suoi 37 anni) del ciclismo mondiale. E Froome ha regalato convinte parole di apprezzamento e soddisfazione per un movimento che 15 anni fa sembrava soltanto folklore e adesso appare come il nuovo orizzonte. Tant’è che i Mondiali di ciclismo del 2025 si disputeranno proprio qui, in Ruanda. E già qui, in Ruanda, cicloamatori e cicloturisti vengono a pedalare (e a spendere). Il Tour du Rwanda è sempre di più la vetrina di un mercato dello sport internazionale.

   

Dopo Froome, la lista dei partenti non prosegue con altri nomi così forti e conosciuti. Ci sono squadre nazionali, come quella del Ruanda ma anche della Gran Bretagna, del Sudafrica e dell’Eritrea. Ci sono squadre del WorldTour, cioè della Coppa dei campioni, come la EF Education e la Israel (di Froome), la Soudal-Quick Step (anche se in versione giovanile) e la TotalEnergies. E ci sono anche gli italiani, distribuiti fra il Green Project Bardiani-CSF-Faizanè (la storica formazione di Bruno Reverberi) e la Q36.5 (dove Vincenzo Nibali fa da ambasciatore e consulente): sei corridori in cerca di avventure e risultati, esperienze e, ma sì, vita. E tutti ne sono entusiasti. A cominciare da Davide Gabburo, 30 anni il prossimo 1° aprile, veronese di Bovolone, al sesto anno di professionismo, che in Ruanda è voluto tornare perché, nella sua personalissima classifica, “da nessuna parte del mondo ho mai visto così tanta gente, tanto calore e tanto colore, lungo le strade”. E per spiegare la quantità di pubblico non solo alla partenza o all’arrivo, ma lungo tutto il percorso, racconta di quando gli scappa la pipì. “Per regolamento bisogna fermarsi in un posto appartato, altrimenti si può essere punti con una multa per atti irriguardosi, o addirittura osceni, in luogo pubblico. In Italia, fuori dai centri abitati. Ma qui è impossibile. Non ci sono 10 metri senza spettatori, neanche in aperta campagna. Frotte di bambini accorrono dalle colline, a piedi nudi, a perdifiato, per assistere al passaggio di noi corridori e poi rimangono lì sulla strada per giocare o per trovare un trofeo – una borraccia, una lattina, un mezzo panino – da portare trionfalmente a casa, o a scuola, o nei campi dove lavorano la terra o pascolano gli animali”. Alla fine Gabburo ha deciso di fare così: s’inoltra nella savana e lì finalmente si libera.

 

Foto di Davide Gabburo
    

Il Tour du Rwanda piace perché unisce la nostalgia del ciclismo delle origini allo spettacolo del ciclismo di oggi. Gabburo racconta, divertito, di “notti trascorse non in grandi alberghi ma in conventi religiosi; letti avvolti nelle zanzariere; perfetti collegamenti wifi e comunicazioni whatsapp; sveglie alle 5.45 perché le tappe cominciano alle 8 e terminano – al massimo – alle 13, più tardi fa troppo caldo; rifornimenti inesistenti, si può contare soltanto sulle proprie ammiraglie; cene a base di riso in bianco, pollo lesso e verdure cotte, mangiando altro si rischia la dissenteria; autisti ruandesi procurati dalgli organizzatori, allegri alla guida, eterni ai distributori; strategie di corsa imprevedibili, con attacchi improvvisi e improponibili come se non ci fosse non dico un domani, ma neanche un dietro l’angolo; corridori africani forti ma sconosciuti e poco riconoscibili, potrebbero essere ogni giorno diversi e io certo non riuscirei ad accorgermene; e una corsa dura, tosta, tutta su e giù”.

  

Già: il paese delle mille colline. Il Ruanda è un intricato, ingobbito, infinito velodromo naturale.

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