Foto Epa, via Ansa

Il Foglio sportivo

Tutto il ciclismo d'Africa

Giovanni Battistuzzi

Dalla Tropicale Amissa Bongo al Tour du Rwanda. Tra gennaio e febbraio si corrono le due più importanti e prestigiose corse a tappe africane. Come pedala, anche lontano dalle strade, il continente che aspetta i Mondiali 2025

Fino a poco più di una ventina di anni fa l’Africa per il ciclismo era un continente sconosciuto, magari affascinante, perché ciò che ci sembra inarrivabile porta con sé contorni sfumati, suoni rumori immagini difficilmente contestualizzabili in un qui e in un ora: altro non è che la dimensione del sogno. All’affascinazione per l’esotico si sono abbandonati scrittori e artisti, gente che con l’immaginazione c’aveva a che fare. C’è però niente di meno immaginario di muovere i pedali all’inseguimento di una vittoria. E questo sebbene proprio la bicicletta regali momenti d’astrazione impareggiabili. Ma non in corsa. L’Africa era allora un continente sconosciuto, almeno dal ciclismo, qualcosa che si sapeva esistesse, ma che non si era mai esplorato perché non c’era mai stata la convenienza di farlo. Certo il ciclismo del primo mondo aveva mandato qualche bici, ma al modo di chi crede che ciò sia un ammollo necessario per lavarsi la coscienza ed essere sicuri di avere fatto così qualcosa di importante. Sono pochi quelli che sanno davvero a cosa sono servite quelle bici e come una parte del continente africano abbia iniziato a pedalare, e veloce, verso una nuova dimensione. Quella che avrà come apice (almeno per ora) il 2025, quando a Kingali, Rwanda, verrà corso il Mondiale di ciclismo

 

Il Mondiale di ciclismo non si correrà in Rwanda per caso. Soprattutto non per concessione “umanitaria” dell’Union cycliste internationale (Uci). Il Rwanda è l’epicentro di un movimento in crescita, di una passione, quella per la bicicletta ancor prima del ciclismo, che accomuna sempre più persone. “Il Rwanda di oggi ricorda un po’ l’Italia dei primi anni dopo la seconda guerra mondiale: il ciclismo è lo sport più seguito, il Tour du Rwanda (che si correrà dal 19 al 26 febbraio e vedrà al via sette squadre professional – la serie B del ciclismo mondiale – e con ogni probabilità anche Chris Froome) è l’evento sportivo dell’anno, interi paesi si fermano per vederlo passare”, racconta al Foglio sportivo Auguste Celestin, guida ciclistica rwandese. “E poi ci sono tutte le altre corse. Quelle europee e quelle africane più importanti. Ora stavo guardando la Tropicale Amissa Bongo, come tanti. La Tropicale Amissa Bongo è una di quelle corse che difficilmente ci si perde qui”.

 

La Tropicale Amissa Bongo si corre in Gabon dal 2006 e terminerà domenica 29 gennaio la sua sedicesima edizione (due sono saltate per la pandemia). È stata la prima gara africana corsa anche da squadre europee, “è stata soprattutto la prima  a dare all’Africa la consapevolezza  di poter contare qualcosa nel ciclismo mondiale”, spiega. Nel 2014 fu vinta per la prima volta da un corridore africano, l’etiope Natnael Berhane. L’anno dopo ci riuscì il tunisino Rafaâ Chtioui. “I loro successi  furono importanti, ma il primo vinse correndo per una squadra europea, il secondo aveva corso in Europa. La vera svolta fu nel 2018, quando Joseph Areruya fu primo nella generale vestendo la maglia Team Rwanda. Fu il momento nel quale il Rwanda e molte altre nazioni capirono di avere le potenzialità per vincere”. Areruya è ancora uno degli sportivi più amati. La sua vittoria fece notare ai più quanto il paese fosse cambiato.

 

Auguste Celestin è nato in Francia, ad Arles, nel 1988. I suoi genitori “avevano intuito che qualcosa di brutto sarebbe capitato, era da anni che per noi Tutsi le cose non andavano bene. E così se ne andarono. Arrivarono in Francia. Evitarono il genocidio, la guerra civile. La evitarono fisicamente, ma portano ancora dentro il lutto per amici e familiari”. Auguste Celestin crebbe lì: “Ad Arles mi innamorai del Tour. Provai con il ciclismo, ma andò male. Ero resistente, ma in salita andavo piano, e pure  in discesa e allo sprint. Andavo piano ovunque. Scelsi di studiare, ma la bici non l’ho mai abbandonata”. Ritornò, o meglio, andò per la prima volta in Rwanda nel 2014. “Volevo vedere da dove erano scappati i miei. Due anni dopo mi trasferii definitivamente. Serviva gente che sapesse parlare le lingue e sapesse pedalare  per fare da guida ai turisti. Il cicloturismo era diventata una realtà che dava soldi e lavoro”. Va così ancora, “anzi, la situazione è migliorata. Nel nord-ovest del paese i cicloturisti sono cresciuti del 250 per cento negli ultimi cinque anni e nel paese arrivano circa 750 milioni di dollari l’anno dal cicloturismo. Se sono tornato non è solo per nostalgia delle origini, ma perché qui faccio ciò che mi piace di più e posso vivere alla grande facendo questo”, spiega Auguste Celestin.

 

I corridori africani hanno iniziato anche a vincere. Biniam Girmay è uno dei giovani corridori più forti. Veloce, bravo nelle classiche del nord, uno che regge anche nelle salite corte. Il miglior talento di un movimento, quello eritreo, che come quello rwandese sta crescendo molto. Il ciclismo su strada però è solo una parte di una passione collettiva. Perché in Rwanda e non solo in Rwanda, ma anche in altri stati africani, stanno aumentando le corse per biciclette gravel, i trail su lunghissime distanze, gare di mountain bike, ciclocross e downhill. Sta aumentando soprattutto la consapevolezza “che la bici è una enorme possibilità di miglioramento sociale ed economico. Non è così dappertutto, ne sono consapevole, ma in molti paesi africani la bicicletta sta diventando una realtà, un modo per migliorare la nostra vita”.