Giro d'Italia. Girmay, van der Poel e il canovaccio perfetto

Giovanni Battistuzzi

È mai facile ammettere di essere battuti da uno che è andato più forte, soprattutto se si è uno dei più forti in circolazione. A Jesi l'eritreo ha vinto davanti all'olandese che con un pollice alzato ha certificato l'impresa

Biniam Girmay e Mathieu van der Poel si erano dati appuntamento a Jesi senza darselo davvero. Non c’era bisogno, per certe cose non c’è mai bisogno, sono evidenti, appaiono chiare, c’è mica necessità di parole. Sapevano che era affar loro la decima tappa del Giro d’Italia 2022. Il percorso, quel su e giù tra le colline marchigiane (in quel lungo ricordo di Michele Scarponi, perché altrimenti non poteva essere, le mancanze nel ciclismo sono parte della presenza della corsa), era ciò che si adattava meglio alle loro caratteristiche, un’attrazione irresistibile per le loro velleità. L’unica cosa da fare era far muovere i pedali il più vorticosamente possibile in salita, nei tanti strappi che il percorso offriva, per staccare i corridori che fanno della velocità in volata il loro biglietto da visita, la loro abilità migliore. Hanno messo i gregari avanti al gruppo, hanno seminato lungo il percorso le resistenze dei velocisti, poi si sono presi il proscenio quando il canovaccio della corsa lo rendeva necessario, ossia sull’ultima salita, quella di Monsano e poi giù a scendere verso valle, verso l’arrivo.

   

 Foto LaPresse  

 

Era un canovaccio pensato da un buon sceneggiatore, uno di quelli che conosce i suoi attori, le loro abilità di improvvisazione. Non è diverso da una commedia dell’arte il ciclismo, le maschere sono più o meno le stesse, sono gli interpreti, i corridori, che le rendono magnifiche o banali, a patto che la trama regga, che il via all’interpretazione attoriale sia ben progettato.

 

Oggi, verso Jesi, tutto è andato per il meglio. Il palco era affollato, ma da buoni interpreti, i migliori in circolazione, almeno a questo Giro, e il crescendo di trama dello spettacolo ben articolato.

 

In cima a Monsano si sono ritrovati maschere motivatissime, capaci, ognuna di esse, di giocare da protagonista, senza creare quella cacofonia di voci che placa e assopisce l’incedere attoriale sino alla stasi del racconto. Biniam Girmay e Mathieu van der Poel sapevano di essere gli attesi, gli eletti dell’ultima battuta. Il primo ha tenuto fede alla parte, il secondo ha provato a trasformare il dialogo in un soliloquio. Gli è andata male. Il suo tentativo a testa all’ingiù verso l’arrivo si è trasformato in una battuta lunga, ma è rimasta una battuta. Il dialogo è continuato e l’ultima parola ha deciso di tenerla per sé Girmay. A trecento metri dall’arrivo si è alzato sui pedali, ha preso il centro del proscenio e non l’ha più mollato. La prepotenza non è mai cattiveria nel ciclismo. È solo un gesto come gli altri, quando fatto muovendo i pedali è cosa giusta, doverosa, graditissima.

  

Biniam Girmay ha attraversato per primo il traguardo di Jesi. L’ho fatto a braccia alzate, come si confà a un finale degno di un’ottima commedia. Come si confà a un duello attoriale come quello di oggi, nel quale gli sfidanti designati hanno rispettato le parti, hanno messo in testa i compagni quando era necessario metterli davanti, cioè subito. Perché certi attori che si direbbero minori, ma che minori non sono affatto, perché animati da quello spirito anarchico e opportunista di quelle maschere che più ci piacciono, quelle disperate e risolute a cambiare le cose, erano in agguato per modificare il così dovrebbe andare. Alessandro De Marchi, Mattia Bais e Lawrence Naesen sono tra il meglio di questa categoria di attori, piccoli don Chisciotte, pronti a gettarsi senza macchia e senza paura contro la tirannide dei mulini a vento del gruppo. Hanno perlustrato il territorio prima di tutti per oltre centosessanta chilometri, De Marchi per qualcuno in più, hanno raccolto nulla, se non la gratitudine di migliaia di appassionati, che proprio in queste azioni vane e disperate percepiscono la magia di uno sport dove non conta, e non può contare, solo l’ordine d’arrivo, ma anche ciò che ha portato a questo ordine d’arrivo.

 

 Foto LaPresse  
 

 

Biniam Girmay questo ordine d’arrivo lo ha messo in riga, un nome dopo l’altro il suo, il primo nome. Mathieu van der Poel lo ha vidimato ancor prima della sua stesura, con quel pollice alzato che non era segno di resa, ma certificazione di prestazione eccezionale. È mai facile ammettere di essere battuti da uno che è andato più forte, soprattutto se si è uno dei più forti in circolazione. Mathieu van der Poel lo ha fatto oggi, con quel pollice alzato nei confronti di Biniam Girmay e della sua gioia sotto l’arrivo (prima del tappo nell'occhio nei festeggiamenti; saltano un po' troppi tappi nei festeggiamenti).

 

 

 

Dopo è arrivato l’abbraccio tra i due, sono arrivate le pacche sulle spalle di tanti, compagni di squadra in primis. Dopo è arrivato l’affetto di Domenico Pozzovivo, ottavo in classifica a trentanove anni, ma che non c’ha pensato due volte a dare una mano al capitano di giornata. Ne valeva la pena. Un corridore africano al Giro d’Italia aveva già vinto al Giro, Alan van Heerden nel 1979, ma mai un corridore nero, ce l’ha fatta oggi Biniam Girmay. Non è la prima volta che cambia il corso degli eventi, e per fortuna è così.