Foto AP Photo/Olivier Matthys

lassù al nord

Alla Gent-Wevelgem Biniam Girmay ha chiuso il cerchio delle pietre

Giovanni Battistuzzi

L'eritreo della Intermarché-Wanty-Gobert ha vinto domenica la Gent-Wevelgem, diventando così il primo corridore africano a vincere una classica. A una dozzina di chilometri di distanza, oltre un secolo prima, le pietre avevano accolto la storia di Hyppolite Figaro, primo africano a correre sul pavé

Tra Wevelgem e Roubaix ci sono un dozzina di chilometri abbondanti e un confine che separa due mondi simili, pieni di punti di incontro, uno su tutti: la bicicletta.

Ruote che danzano sulle pietre, che si muovono veloci e a volte ballonzolanti sul pavé. Pietre che si assomigliano, ma che sono diverse per posa e dimensione, quasi a chiarire che esiste davvero un qui e un altrove, anche se piccolo, se impercettibile.

Tra Wevelgem e Roubaix ci sono sono una dozzina di chilometri che c’hanno messo oltre un secolo a ricongiunsi, a superare un confine e quelle minuscole differenze di posa e dimensione delle pietre. Domenica 27 marzo, a ventiquattro chilometri dall’arrivo e poi a qualche centinaia di metri dalla linea di traguardo due scosse telluriche hanno unito due lembi di una stessa storia. Una storia a pedali, che lassù al nord, sono tanto, spesso tutto, specie in questo periodo, che altro non è quello che annualmente si aspetta, quasi fosse un natale ciclistico.

Biniam Girmay è sotto lo striscione d’arrivo della Gent-Wevelgem, a braccia alzate e poi deposte sul caschetto, quasi gli servisse il contatto con qualcosa di tattile, di reale, per rendersi conto che era successo davvero, che non stava sognando, che quella linea l’aveva superata realmente, mica per finta. E per primo. Che nel ciclismo, come in ogni altro sport, conta e tantissimo, checché se ne dica.

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Soprattutto quando oltrepassando quella linea si entra in una nuova dimensione, si traccia il solco tra un prima e un dopo. Anzi un doppio prima e dopo. Perché mai un corridore africano aveva vinto lassù, in una classica. Perché mai un corridore nero aveva messo tutti alle spalle lassù, in una classica.

Biniam Girmay è eritreo, corre per un squadra belga, l’Intermarché-Wanty-Gobert. Biniam Girmay è per brevità chiamato Bini e per brevità si ha capito che le Fiandre, ben più delle Ardenne, dove inizialmente gli avevano suggerito che avrebbe potuto cogliere fior di risultati, si adattavano al suo modo di muovere i pedali.

 

 

Le pietre d’altra parte camuffano. Era per decenni e decenni un luogo d’elezione fiammingo, ma solo perché lassù era difficile e scomodo arrivarci. Con l’aumento della praticità dei collegamenti, si sono aperte a tutti, o almeno a tutti coloro motivati da qualcosa di più di una volontà di conquista ciclistica. Si arriva mai a correre lassù per caso. Ci si arriva ancor meno a vincere. Ci vogliono motivazioni e passione: la scomodità è un discrimine, che culla anime adatte, a meno che non ci si chiami Bernard Hinault.

Le pietre sono anche un camuffamento visivo. Polvere o fango, differenza non fanno, uniformano uomini e bicicletta, tingono la pelle, la rendono uguale, sia essa bianca o nera. Le pietre se ne fregano, come fa terra sulla quale si poggiano e che da esse scappa e per appiccicarsi addosso a chi le attraversa galleggiando su di essa.

 

E se ne fregano pure del tempo. Sono una resistenza al passaggio di giorni, mesi, anni, secoli. Sono blocchi, che in realtà sono circoli, portano all’indietro all’origine del ciclismo.

Ed è in questa origine, che il ricongiungimento si è compiuto. Oltre un secolo dopo, a una dozzina abbondante di chilometri di distanza. Il sorriso di Biniam Girmay, per brevità chiamato Bini, si sovrappone a quello di Hyppolite Figaro, per brevità chiamato Vendredi. Un soprannome che più si userebbe, perché razzista. Venerdì chiamato così per il ragazzo salvato da Robinson mentre stava per esser sacrificato in un rituale di cannibalismo.

Hyppolite Figaro pedalava che l’Ottocento ancora non era finito e il 19 aprile del 1896 partì da Parigi diretto a Roubaix per la prima Parigi-Roubaix della storia.

Veniva dalle Mauritius, Hyppolite Figaro, ma era sempre, o quasi, vissuto a Parigi. Figarò aveva iniziato a correre in pista e in pista aveva dimostrato di essere un signor corridore. Un amore nato per prossimità. Suo padre dalle Mauritius era finito a Parigi e lavorava come stalliere in una tenuta a due passi dal Vélodrome Buffalo. Hyppolite iniziò a girare lì nel 1893, un anno dopo l’apertura del Velodromo, e nel 1895 sfidò Henri Desgrange, colui che si inventò in Tour de France, all’epoca fior di corridore (due anni prima realizzò il primo record dell’Ora). Perse. Ma Desgrange fu colpito dalla sua tempra e lo incitò a continuare, invitandolo sempre alle riunioni su pista che organizzava, e che spesso vinceva.

Hyppolite Figaro anticipò Biniam Girmay sulle strade del Belgio, evitando però quelle di Fiandra e finendo in Vallonia: fu quinto alla Parigi-Mons del 1896. Smise di correre nel 1902. Di lì in avanti le sue tracce si sono perse.