(foto Ap)

Il foglio sportivo

Una Premier League tridimensionale

Moris Gasparri

Il segreto del successo del campionato inglese. Tra Stati Uniti, Africa e Scandinavia

Ci sono molti equivoci nella percezione italiana dell’egemonia globale della Premier League, i cui effetti di “spoliazione napoleonica” sulla nostra Serie A non sono mai stati così visibili come nelle scorse settimane di calciomercato.  L’elenco è ampio: si va dalle reazioni emotive di sorpresa, che scambiano tale egemonia per un processo futuro da temere e non invece un fenomeno la cui costruzione comincia ad avere ormai una durata consolidata alle spalle, e quindi differenti e più ridotti margini di resistibilità, a quelle di sapore moralistico fatte di lamenti scandalizzati sulle cifre di acquisto dei calciatori, di profezie sull’imminente scoppio della bolla finanziaria, per arrivare ai seguaci contemporanei dello storico greco Polibio e della sua visione ciclica della storia, per cui all’ascesa e declino del calcio italiano corrisponderà il medesimo movimento circolare per quello inglese. 

 

Queste reazioni denotano poca comprensione dei motivi effettuali alla base di questo dominio, e dei fattori inediti su cui poggia. Siamo poco abituati, soprattutto noi italiani che ne siamo stati tra i principali protagonisti, all’idea che il Novecento possa aver rappresentato nulla più che il momento preistorico del calcio, abbrivio di un percorso oggi enormemente più ampio ed esteso e per la prima volta capace di abbracciare e coinvolgere nei suoi spettacoli pressoché tutti i popoli di un pianeta abitato da 8 miliardi di persone, affollato quindi da sempre più tifosi spesso novizi della passione calcistica per i quali il calcio inizia e finisce con la Premier e i suoi club, non certo con l’Inter di Herrera, il Milan di Sacchi o la Juve di Lippi. Il fatto che nell’attuale ciclo di vendita 2022-2025 i diritti televisivi internazionali del principale campionato inglese abbiano superato per la prima volta in valore economico quelli interni, coi primi cresciuti a quota 2,1 miliardi di euro a stagione (circa dieci volte quelli della Serie A), è la fotografia simbolica di questo passaggio dalla preistoria alla storia globale. Ci sono ovviamente varie ragioni – dai meccanismi di governance, al sapiente uso della legacy imperiale, all’attrattività di capitali ad ampio raggio – che spiegano l’attuale egemonia economica della Premier League. Sono però poco analizzati alcuni fattori che ne stanno guidando l’espansione in alcune aree del globo, e che stanno alla base dell’aumento appena descritto. Da questo punto di vista il potere di penetrazione spettacolare della Premier, inattingibile in queste forme a ogni altra lega calcistica del pianeta, ha tre dimensioni decisive.

 

La prima è riassumibile in una formula: chi prende gli Stati Uniti prende il mondo. Grazie anche alla presenza di sempre più proprietà americane e calciatori americani, il calcio inglese sta riuscendo a far interessare di sé un continente a lungo refrattario rispetto all’utilizzo pedatorio della palla come quello nordamericano (mentre il football Nfl è atterrato da anni nei grandi stadi londinesi, in una vera e propria ibridazione transoceanica di culture sportive). Bisogna prestare particolare attenzione a un momento-spartiacque: la firma del contratto, nell’ottobre del 2012, tra la Premier e Nbc, storicamente il grande colosso dello sport televisivo statunitense, a partire dal ruolo di principale finanziatore della macchina olimpica, capace di una forza d’investimento a lungo termine i cui effetti trasformativi sono oggi ampiamente visibili, ma che potevano essere ampiamente presagiti al momento della firma. Qualche giorno fa il network americano ha comunicato che l’ultimo Arsenal-Manchester United vinto dai Gunners per 3 a 2 ha totalizzato il nuovo record di spettatori medi per una partita di Premier trasmessa nel continente americano, con poco meno di due milioni. La scorsa stagione molte partite hanno superato il milione di spettatori medi, dati impensabili fino a pochi anni fa, quando la presenza televisiva nel mercato sportivo più ricco del pianeta era molto marginale. Quando verrà rinegoziato l’attuale contratto, che al momento vale qualcosa come 450 milioni di dollari a stagione (e dieci anni fa ne valeva poco più di ottanta)? Pochi mesi dopo i Mondiali del 2026, ed è quindi scontato prevedere un nuovo importante balzo nell’interesse e negli interessi. 

 

Veniamo alla seconda dimensione. Se vi dicessero che il mercato televisivo americano vale oggi annualmente per la Premier League non così tanto di più di quello africano penserete di essere presi in giro… e invece è la realtà. È questo il secondo grande cuore dell’espansione globale della Premier, molto meno strombazzato di quello cinese ma molto più redditizio. Dal punto di vista commerciale l’Africa è una terra promessa per i club inglesi: un continente con una crescita economica sì diseguale e costellata di situazioni non lineari, ma appunto crescita, quindi aumento dei consumi e della disponibilità di servizi, e una differenza demografica fondamentale con tutti gli altri continenti del globo: giovani, tanti giovani, tantissimi giovani, sempre più malati del bene primario chiamato calcio, quindi malati di Premier, magari malati dell’Arsenal di Arteta, la vera squadra-feticcio del continente nonostante gli scarsi successi dell’ultimo quindicennio, non a caso da anni sponsorizzata dall’ente del turismo del governo ruandese e tifata dalla maggioranza dei leader politici africani. 
Qui il partner televisivo di lunga data è SuperSport, il gigante sudafricano dei media, storicamente la prima pay-tv in terra africana e con una radicata presenza in tutta l’Africa subsahariana. A questo si aggiunge un particolare accordo stipulato dalla Premier con Infront per trasmettere settimanalmente partite in chiaro in 40 stati (per esempio da questa stagione in Camerun, Benin, Botswana), con forme partecipative, ben documentate da David Goldblatt nel suo monumentale saggio sulla globalizzazione del calcio, che ricordano quelle dell’Italia anni Sessanta alle prese con l’arrivo della tv. La formula della Premier League come calcio del popolo va intesa alla lettera nel senso del popolo africano.

 

La terza dimensione potrebbe sembrare minore, ma è comunque interessante: si tratta del legame norreno, nel ricordo di un’Inghilterra che giusto un millennio fa cadde sotto il dominio danese del Danelaw vichingo (Shakespeare nell’Amleto riecheggia questo passato), in particolare alcune città oggi simbolo della lega come Leicester. Grazie al nuovo mega-accordo per i paesi dell’area scandinava con il network Nent, la Premier vale in quest’area geografica più di quanto valgano singolarmente nel proprio mercato interno i rispettivi campionati nazionali, e avere Haaland è un fattore non da poco. Questa è la dimostrazione più pura del concetto di egemonia: costringere gli altri a guardare i tuoi spettacoli senza usare la forza di costrizione, ma al contrario attraverso una capacità seduttiva, in un’economia produttiva del piacere per cui è stato coniato il termine di “imperi irresistibili”.

 

La situazione attuale della globalizzazione del calcio assomiglia all’avvento dell’era delle grandi navigazioni globali e dello scontro tra potenze marittime rivali, comprese le forzature “piratesche” delle regole contabili, dal City al Chelsea. I fattori sopra analizzati sono centrali e unici, lottare per scalfirli, come fecero gli olandesi per spossessare i portoghesi dal controllo delle rotte asiatiche, è molto complicato: scardinare questa presenza da parte delle altre leghe calcistiche nazionali è allo stato attuale delle cose fortemente improbabile, perlomeno nel medio periodo. È importante chiarire anche come la nuova Champions League o la Superlega non saranno progetti rivali del potere egemonico della Premier fintanto che non verrà avanzata la pretesa sul vero Sacro Graal dell’economia dell’attenzione calcistica, il fine settimana, collocazione temporale erede della festa sacra, principale motore della passione calcistica e del consumo di eventi. Il vero nemico potrebbe invece annidarsi in fattori endogeni: scandali finanziari, partite truccate, ritorno della violenza hooligans (tema di recente tornato in auge nel suo legame con l’aumento dei consumi di cocaina negli stadi inglesi, specchio del più generale aumento della sua produzione globale). E l’Italia in questi scenari? Materia per una prossima analisi.

Di più su questi argomenti: