Foto Epa, via Ansa

Peter Sagan ha portato il ciclismo in un'altra dimensione

Giovanni Battistuzzi

Il campione slovacco ha annunciato che a fine stagione dirà basta con le corse su strada. Ma non con la bicicletta. Tornerà al vecchio amore, la mountain bike

Che prima o poi sarebbe finita era nell’ordine delle cose. Che questo momento sarebbe arrivato prima che poi era plausibile, i segnali c’erano tutti. È arrivato prima ancora dell’ipotesi data per buona dai più: ottobre del 2024. Questa sarà l’ultima stagione in gruppo di Peter Sagan. Lo slovacco ha annunciato che a ottobre darà l’addio al ciclismo. Non però alla bicicletta. Perché uno come Sagan giù dalla bici è difficile solo immaginarlo. Continuerà, ma alla sua maniera. Continuerà a correre su di una mountain bike, a volte, chissà, anche su strada. Saranno però sporadiche occasioni e solo in funzione della preparazione per il grande appuntamento delle Olimpiadi 2024, quelle di Parigi, quelle nelle quali tenterà di conquistare l’oro olimpico nel cross country.

 

Un ritorno all’antico per Peter Sagan, un ritorno al Peter Sagan bambino e adolescente, quello che prometteva di essere un gran campione lontano dall’asfalto. Andò diversamente.

 

Foto Epa, via Ansa  
   

C’è stato un momento nel quale Peter Sagan è stato il miglior interprete al mondo della bicicletta. Forse non il più forte, forse neppure il più vincente, ma il migliore sì, quello per il quale valeva la pena vedere ogni corsa a cui partecipava. Tra il 2012 e il 2016 lo slovacco è stato quanto di meglio si poteva vedere in corsa. Fino al 2018 è stato tanto del meglio che muoveva i pedali. Poi le vittorie sono diminuite, nuovi interpreti sono arrivati a ingombrare le prime posizioni degli ordini d’arrivo.

  

Nuovi interpreti che con lui c’entravano parecchio: tutti, in un modo o nell’altro, suoi figli putativi. Perché se ha avuto un merito Peter Sagan, e non ne ha avuto solo uno, è stato quello di portare il ciclismo verso un’altra dimensione. Lo ha preso per mano, lo ha accompagnato in un nuovo orizzonte, ha reso evidente che il pedalare verso un traguardo, il lottare per una vittoria, era anche, se non soprattutto, una forma di divertimento, una gran gioia. E questo nonostante all’arrivo ci arrivasse sfinito, dopo aver dato tutto. E anche quando aveva dato tutto, in ogni caso, riusciva a trovare il tempo per chi era venuto a vederlo, a sostenerlo, a incitarlo.

   

Foto Epa, via Ansa  
  

Nei ragazzi che negli ultimi anni stanno scompaginando gerarchie, albi d’oro e modo di correre, assieme, sfidandosi sempre e spesso quando il traguardo è parecchio lontano, c’è l’estensione del dominio della lotta che Peter Sagan riuscì a imporre, molto più solo, qualche anno prima il loro arrivo. Perché Peter Sagan era, ancora ogni tanto lo è, un corridore che avrebbe potuto aspettare, attendere l’ultimo momento buono per involarsi da solo, oppure cercare di regolare tutti in volata. Lo ha quasi mai fatto: certo ci sono stati Tour de France nei quali correva, si gestiva, da velocista da grande gruppo, ma anche in quelle Grand Boucle trovava sempre il modo di creare il coup de théâtre, la trovata a effetto. Come quella volta il 13 luglio 2016 verso Montpellier che sfruttando il vento e a forza di essere vento, anticipò tutto il gruppo con la compartecipazione del fido Maciej Bodnar, di Geraint Thomas e Chris Froome: guadagnarono solo sei secondi, un niente, ma sei secondi di straordinaria fattura, indimenticabili tanto quanto minuti e minuti guadagnati da altri.

   

    

Peter Sagan ha sempre cercato di giustificare la sua presenza in corsa cercando la solitudine, a volte trovandola, a volte ricalibrando la sua strategia di corsa, cercando ogni volta di scartare la banalità della vittoria. E anche quando non vinceva, la sua presenza in corsa la si scorgeva, un modo per essere protagonista lo trovava.

  

Ora Peter Sagan ha deciso di concedersi e concederci altri nove mesi a scorrazzare per le strade d’Europa e del mondo. Gli ultimi nove mesi, gli stessi che anche un altro dei protagonisti di questi ultimi anni, Thibaut Pinot, si è concesso e ci ha concesso. Poi farà altro, darà finalmente tempo a suo figlio Marlon, ma questi sono aspetti privati. Farà, e questo ci riguarda invece, qualcosa che sarà altrettanto esaltante: si dedicherà alla mountain bike, al suo primo amore. E chissà che la sua presenza sugli sterrati, tra i boschi e le pietre, non ci darà l’occasione di avere più biciclette da vedere. Perché una cosa ci hanno insegnato gli ultimi anni: non è vero che solo sull’asfalto si muovono le biciclette e gli interessi delle persone. Le bici scorrono dappertutto. Il ciclocross è spettacolare, breve, intenso una turbine di equilibrismo e velocità; la pista sa regalare grande divertimento e suspance. La mountain bike uguale. Serve solo l’alfiere giusto per renderlo evidente ai più. E chissà che a Parigi non si ritrovi a rivaleggiare anche con Tom Pidcock e Mathieu van der Poel oltre che con Nino Schurter, Mathias Flückiger, Tituan Carod e Luca Braidot.

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