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Al Tour Peter Sagan non ha vinto. Poco male: ha creato

Giovanni Battistuzzi

Sam Bennett, che ieri ha vinto sugli Champs-Élysées, ha conquistato la maglia verde, l'effige che per sette volte fu dello slovacco. La sua Grande Boucle è stata deludente? Tutt'altro, ha scritto un romanzo d’appendice

Non ha vinto, si è solo piazzato, e a volte neppure come avrebbe sperato. Ha visto vestirsi di verde qualcun altro, e dopo otto anni e sette salite sul podio a Parigi (nel 2017 venne squalificato dopo il contatto con Mark Cavendish a Vittel – qui spiegavamo perché quella decisione fu ingiusta) è stata una novità di quelle a cui mica è facile abituarsi. E non solo per Peter Sagan, per tutto il Tour de France. Perché in questi ultimi anni c’è stata sempre una certezza in Francia, e non solo: forse Sagan non era il velocista più forte del gruppo, ma era quello che trovava sempre il modo di ottenere ciò che voleva, ossia una vittoria e la maglia della classifica a punti, quella che contraddistingue il corridore più veloce e tenace del Tour.

 

Quel corridore quest’anno è stato Sam Bennett. Per lui due vittorie, ieri a Parigi quella più prestigiosa, due secondi posti, un terzo. Cinque volte tra i primi tre negli otto arrivi dedicati, più o meno, alle ruote veloci. “Fare gli Champs-Élysées in maglia verde, è unico. In questi anni non la sognavo nemmeno, semplicemente perché pensavo di non essere abbastanza bravo per conquistarla. Indossarla e vincerla è stato qualcosa di strano, è qualcosa che non dimenticherò per il resto della mia vita”, ha detto l’irlandese a Cyclingnews. Un concetto che aveva già esposto due anni fa al Giro d’Italia, quando vinse tre tappe: “E pensare che nemmeno ero sicuro di essere un velocista, non c’avevo mai pensato di esserlo”. Uno stupore trasformatosi in lacrime a Saint-Martin-de-Ré, il giorno della sua prima vittoria al Tour. Al suo primo Tour. Perché Bennett ha dovuto e saputo aspettare. Alla Deceunick l’anno scorso (per gli sprint della Grande Boucle venne selezionato Elia Viviani), alla Bora gli anni prima, dove era sempre stato Sagan l’uomo veloce per le volate francesi.

 

Peter Sagan ha visto il successo dell’ex compagno di squadra, si è complimentato con lui, gli ha stretto la mano, ha ammesso: “Sei stato il più forte”.

 

Di Peter Sagan in queste tre settimane hanno detto che s’è imbolsito. Non sembra. Che è invecchiato. Lapalissiano, il tempo non si è mai fermato per nessuno. Che non è un vincente. Blasfemo. Che è finito. Severo. Che ha perso smalto e voglia. Ingiusto. Non ha vinto, va messo agli atti, ma è paradossalmente riuscito a fare di più. In questo Tour de France non è stato finalizzatore ma creatore. È stato, con l’aiuto dei suoi compagni di squadra, un modificatore di trame, un generatore di trappole. Uno scrittore di romanzi d’appendice. Che forse sarà bassa letteratura per gli intellettualoidi del pedale, ma che ha ancora la capacità di coinvolgere e stupire e tenerci attaccato allo schermo anche in un’epoca di facile reperimento di differite con possibilità di scorrimento veloce.

 

Verso Lavaur, settima tappa, la Bora si è prima messa davanti prestissimo e ha sconvolto una frazione che sembrava se non banale, quantomeno sempliciotta. E, poi, ha dato il via al gioco dei ventagli che ha tagliato fuori tre dei futuri primi cinque in classifica generale: Tadej Pogačar, Richie Porte, Mikel Landa. Finì tredicesimo per colpa di un contatto che gli ha fatto perdere il pedale.

 

Verso Poitiers, undicesima tappa, ha lanciato Lukas Pöstlberger in avanscoperta per movimentare un po’ gli ultimi chilometri nel tentativo di renderli più duri e quindi meno favorevoli ai velocisti.

 

Verso Lione, quattordicesima tappa, i suoi compagni hanno tagliato fuori gli avversari sulla prima côte e hanno reso di gruppo una tappa da fughe. Sagan si è poi materializzato in solitudine sulla Côte de la Croix-Rousse provando a fare ciò che poi è riuscito a Soren Kragh Andersen, il numero solitario. Un tentativo di sorpresa ripetuto verso Champagnole, diciannovesima tappa, quando dopo il traguardo volante ha tirato dritto e ha riscritto una tappa che doveva essere una lunga attesa dello sprint.

 

Se questo Tour ce lo ricorderemo – ciò che è successo nella cronometro di Planche des Belles Filles è qualcosa che difficilmente ci passerà di mente – è stato anche grazie all’impegno della Bora, di Oss, Pöstlberger, Großschartner, Mulhberger, Schachmann e Kämna, capitanati da un Sagan che ha provato a creare l’inconsueto, affidandosi all’orgoglio, nel tentativo di realizzare un’epifania che lui ha colto. Una visione che probabilmente sarebbe passata e non colta dagli altri. Che non abbia vinto è un dettaglio del tutto trascurabile.

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