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Napoli-Juve: ovvero la vittoria del gioco sulla speculazione

Giuseppe Pastore

Il 5 a 1 di ieri sera ha dimostrato che tra le due squadre c'è troppa differenza: tecnica, tattica e agonistica. E ora i ragazzi di Spalletti non possono più nascondersi

Dal corto muso al muso lungo: la Juventus di Andrea Agnelli passa dalla cronaca alla storia con una sconfitta epocale, la peggiore del suo decennio. I bianconeri non subivano cinque gol tutti insieme da quasi trent'anni, un inutile Pescara-Juventus 5-1 del maggio 1993 in cui ad aprire le marcature era stato proprio Massimiliano Allegri, allora brillante centrocampista del Pescara. È la prima volta in sette campionati che la Juventus di Allegri concede (almeno) quattro gol: questa mole di dati un po' fredda e punitiva, al limite dell'accanimento verso la Juve, serve a fotografare il corso degli eventi, la direzione ben precisa presa nonostante tutto dal calcio italiano, che quest'anno è soprattutto Napoli.

 

Il paravento un po' pietoso del confronto di stili con cui era stata presentata la partita, “brillantezza contro concretezza”, nascondeva soprattutto l'abissale e non sorprendente divario tecnico tra le due squadre, che ieri sera però sono state lontanissime anche dal punto di vista dell'intensità e dell'aggressività fisica, qualità che in teoria dovrebbero appartenere al cosiddetto DNA Juve. Non vogliamo certo sminuire il notevolissimo filotto di otto vittorie consecutive senza subire gol, anche se da un'analisi più accurata emergeva un certo over-performare del pacchetto arretrato juventino; si vede che questo Napoli è troppo per tutte.

L'Inter l'aveva imbrigliato alla grande con un blocco basso in stile Conte che si era sposato bene con la cattiva giornata di tutta la squadra; la Juve invece non è mai riuscita a ripartire in modo credibile, nonostante le frecce non le mancassero. Le uniche iniziative pericolose sono arrivate su iniziative individuali del campione Di Maria, unico juventino sopra la sufficienza, mentre spicca per negatività la partita di Federico Chiesa, per mezz'ora davvero mortificato da Allegri in un ruolo a tutta fascia che lo ha visto occupare la propria area di rigore più di quella avversaria. Non vorremmo che il rapporto tra Allegri e Chiesa, al rientro dopo un anno e dunque ancora estremamente altalenante, diventasse alla lunga come quello tra Mourinho e Zaniolo, un altro grande talento sacrificato in estenuanti lavori di copertura per cinica ragion di Stato.

 

Il Napoli non ha di questi problemi. È una squadra che gode del proprio gioco, scoppiettante come una stella filante nei momenti di esaltazione: il simbolo è Kvaratskhelia, ala iper-tecnica che vive di entusiasmi e quando è in serata è semplicemente troppa roba per questo campionato. Il piacere del gioco, il gusto di giocare a calcio – sembra un concetto banale, ma negli ultimi due mesi, per esempio, la Juventus ha manifestato gusti opposti – è il concetto di fondo che appartiene a tutti i giocatori della rosa, da Politano a Mario Rui, da Anguissa a Lobotka, persino ai ruvidi Kim e Rrahmani che con un errore di palleggio ha regalato una grande occasione a Di Maria. Una squadra che si diverte! Quale rivoluzione nel calcio italiano sempre un po' penitenziale, che sorride sornione alle esibizioni del cortomusismo; e invece quanto bisogno ci sarebbe di spalancare le finestre. Gelosi della propria eccezionalità culturale rispetto al resto del Paese, a Napoli storcono sempre il naso quando l'Italia cerca di mettere il cappello sulle loro imprese: ma questa squadra, che tra l'altro ha fatto benissimo anche in Europa, si può prendere sulle spalle il futuro tecnico e tattico del nostro calcio. Vedremo: intanto la città si gode l'emozione, rappresentata dalla faccia di De Laurentiis solcata dalla consapevolezza che adesso è caduta anche l'ultima maschera. Adesso il Napoli ha il dovere di arrivare in fondo, con tutto il peso psicologico che questa cosa comporterà. Lo sa bene Spalletti, istrione anche nella sottrazione, che si è presentato ai microfoni con lo stesso basso profilo esibito dopo il 6-1 di Amsterdam: un understatement di maniera per nascondere il vulcano che gli bolle dentro.

 

Sulla Juventus c'è poco da aggiungere. L'anno scorso girò a metà campionato a 12 punti dal primo posto, quest'anno – nonostante i soldi spesi – è concreto il rischio di un'altra doppia cifra, anche se i 10 punti di distacco si spiegano anche con il passo mostruoso del Napoli. Ormai criticare la società (quale?) è sparare sulla Croce Rossa: la magra consolazione è che serate del genere possano indurre a una riflessione (ma da parte di chi?) sull'ipotesi dei pieni poteri da conferire a Massimiliano Allegri, ieri sera surclassato in tutto e per tutto da Spalletti. Non è stata molto simpatica la velata attribuzione dei primi quattro gol agli errori difensivi dei singoli, anche se il voto in pagella di Bremer è stato pericolosamente vicino al suo numero di maglia.

Non ha pagato, più in generale, la solita strategia attendista sempre uguale da Cremona a Napoli, come se il rischio fosse solo qualcosa di negativo da fuggire come la peste (strana filosofia, per un amante dell'azzardo come Max): aveva pagato in casa contro l'Inter, a novembre, anche per via di qualche errore di mira nerazzurro, ma prima o poi i grandi numeri presentano sempre il conto. La “manita de Dios” sgretola le certezze ad altissima quota di una squadra che in questa prima metà di stagione, ogni volta che c'è stato bisogno di indossare il vestito elegante nelle varie serate di gala da Parigi a Lisbona passando per Milano, vi ha scoperto macchie e smagliature impresentabili. Parafrasando Giorgio Gaber, anche per oggi non si vola: dev'essere questo il destino nel medio periodo di una Juve sempre meno vincente e sempre più piazzata.

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