Foto AFP, via Ansa

Il Foglio sportivo

Pelé re senza eredi, ma con un'eredità

Umberto Zapelloni

Nessuno sarà mai come lui che ha insegnato a tutti ad amare il calcio senza dimenticare la vita  

Il Re non poteva che andarsene nello stesso anno in cui se ne era già andata anche la Regina. Lei aveva governato il popolo che crede di aver inventato il calcio, lui aveva trasformato il gioco in arte, disegnando dei capolavori che sarebbero potuti uscire dalla matita di un genio come Arata Isozaki, l’architetto andatosene, coincidenza bestiale, proprio nello stesso giorno in cui lui ha chiuso gli occhi.

 

Con i loro gesti la Regina e il Re hanno segnato un’epoca e riscritto la Storia. Sono nati quando il mondo era ancora in bianco e nero e lo hanno riempito di colori. Hanno cominciato a vivere su vecchie pellicole sgranate e hanno finito in 4K, lasciandoci con il rimpianto di non avere i loro inizi in alta definizione.

 

Sua Maestà la Regina Elisabetta II ha un erede che piaceva a pochi, ma che adesso sta cominciando a piacere a molti. O Rei non ha eredi perché l’unico che poteva avvicinarsi alla sua luce se n’è andato molto prima di lui, travolto dalla sua vita che non è mai stata regolare. Edson Arantes do Nascimento non ha eredi, ma ha più imitatori della Settimana Enigmistica. Guardatevi i filmati di alcune sue giocate, le ritroverete fotocopiate dai più grandi che sono venuti dopo, anche da quelli come Cruijff che sono stati dei Profeti. Non ha eredi, ma ci lascia un’eredità infinita. Non la lascia solo a chi, come lui, è innamorato del calcio. Basta leggersi i messaggi che hanno invaso i social l’altra sera. Lo hanno voluto ricordare tutti. A destra, a sinistra e al centro. A tutto campo: dove giocava lui.

 

“Tutto quello che noi siamo è grazie a te, ti amiamo”. Nel messaggio con cui la figlia Kelly ha salutato il Re c’è molto più di un messaggio d’amore. C’è il significato dell’eredità lasciata da O Rei che va molto oltre i tre titoli mondiali con il Brasile, unico ad averli vinti e 1.281 gol in 1.363 partite, conteggiati dagli statistici di tutto il mondo. Le cifre in questa storia meravigliosa, cominciata 82 anni fa a Tres Coracoes, contano, ma non bastano a raccontare quello che è stato il miglior calciatore di sempre. Contano di più le immagini, anche se arrivano da un’epoca in cui telecamere e macchine fotografiche non erano le stesse di oggi. Non la fotografia da film della rovesciata di Fuga per la vittoria, quelle vere arrivate dai campi di tutto il mondo a cominciare dall’immagine dell’Azteca del 21 giugno 1970 quando è rimasto in cielo una vita mentre Burgnich con una mano alzata cercava inutilmente di contrastarlo. È andato sulla luna come Neil Armstrong l’anno prima, ma senza bisogno di un Apollo. Per noi italiani è l’immagine della fine di un sogno Mondiale. Ma rivista cinquant’anni dopo è semplicemente la conferma che quell’uomo viveva su un altro pianeta. Fisicamente e soprattutto tecnicamente non aveva nulla di avvicinabile dagli altri. È riuscito a trasformare in un capolavoro anche i rari gol sbagliati. Quello a porta quasi vuota, quando con una finta sovrumana ha mandato per margherite uno dei più grandi portieri uruguaiani, Ladislao Mazurkiewicz e quel pallonetto da 50 metri finito fuori di pochissimo con il portiere ceko Ivo Viktor lontano dai pali.

 

Pelé se ne è a dato in pace con la famiglia, circondato dall’amore dei suoi cari. Una fine diversa da quella triste e solitaria di Maradona. Continuano a metterli uno accanto all’altro, anche la Fifa attentissima a non scontentare nessuno ha assegnato a tutti e due ex equo il premio di miglior calciatore del secolo. Ma Pelé e Maradona erano come il giorno e la notte che si incontrano solo quando il cielo si trasforma in una magia all’alba e al tramonto. Hanno vissuto e giocato in modo diverso. Ma se Diego ha trovato in Messi il suo erede, Pelé non poteva certo rivedersi in quello che non ha ancora combinato Neymar. Pelé non ha eredi, ma ci lascia un’eredità infinita. Ha portato il calcio in una nuova èra con la sua tecnica, la sua velocità, la sua forza. Ci ha insegnato ad amarlo. A viverlo con allegria. A viverlo con il sorriso. “Il calcio è gioia” urla sempre un calciatore macchietta in Ted Lasso, la serie tv che sbanca ogni concorso. Ce lo ha insegnato Pelé che si è fatto amare anche da chi usciva battuto e non poteva fare altro che riconoscere la sua immensità.

 

Pelé non è stato soltanto il miglior calciatore del mondo. È stato un uomo che ha lasciato un segno profondo come tutti i grandi geni della storia. Il Sunday Times una volta titolò “How do you spell Pelé? G-O-D”. Come si scrive Pelé? D-I-O. Edson Arantes do Nascimento, diventato Pelé per l’invenzione maligna di un avversario, è stato un genio paragonabile a Leonardo, Einstein, Mozart. Le sue opere sono diventate immortali. “Pelé è morto, se Pelé può morire”, titolava ieri O Estado de S.Paulo. Lui non c’è più, ma quello che ci ha lasciato non andrà mai via. Se dopo di lui sono nati Maradona, Zico, Rivera, Platini, Cruijff, Ronaldo, Ronaldinho, Messi è perché prima c’era stato lui. Per cercare di imitare la sua grandezza sono diventati dei fenomeni anche loro. L’immensità di un uomo, sia esso un campione, un artista, un genio della musica o della matematica, si giudica anche dall’ispirazione che trasmette. Pelé ha avuto la grandezza di mandare due messaggi, di raccontare ai bambini della favela che puoi diventare Pelé anche cominciando a giocare con una palla di stracci, a tutti gli altri che cercando di imitarlo avresti potuto provare ad avvicinarti a dio. Ma lo ha fatto sempre senza arroganza, senza supponenza, senza far sentire agli altri che il re era lui. E lo ha fatto sorridendo. Trovate una foto di Pelé arrabbiato, triste, malinconico. Lui aveva tanta gioia negli occhi, quanta malinconia aveva un altro idolo di tutto il Brasile come Ayrton Senna. Eppure tutti e due hanno trasmesso emozioni, hanno lasciato quella che gli americani chiamano Legacy e noi traduciamo in eredità correndo il rischio di ridurla soltanto in un lascito di denari e proprietà.

 

“È l’uomo che ha aperto porte di ogni tipo. Pelé era in carne e ossa, ma non era come gli altri. Una volta, attraversando la dogana negli Stati Uniti, si rese conto di aver perso il passaporto. Passò con un autografo”, scriveva ieri mattina la Folha di San Paolo. Pelé è riuscito a fare tutto senza la tv ad alta definizione, senza i social, senza andarsene dal Brasile anche se lo hanno cercato da tutto il mondo, Italia compresa come ci raccontò un giorno Moratti. La sua parentesi finale ai Cosmos di New York ha aggiunto poco o nulla al mito, ma ha permesso al soccer di diventare una cosa seria anche per gli americani. Se anche Pelé avesse lasciato il Santos per l’Europa non avrebbe aggiunto nulla alla sua grandezza. Avrebbe collezionato qualche altro trofeo, vinto qualche altro premio, ma non avrebbe aggiunto nulla al ricordo che ci ha lasciato e mai se ne andrà da questa terra.

Di più su questi argomenti: