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il ricordo

Quando Pelé tornò a camminare sui piedi

Marco Ballestracci

Il Mondiale del 1970 fu il primo nel quale in Italia si poté vedere davvero, e a lungo, il calcio del campione brasiliano. La bellezza delle sue giocate e quel meraviglioso gol mancato

Alla fine, quando si ha una certa età, gli uomini che camminano sulle mani, gli acrobati, non fanno più tanto effetto, perché, lo sanno tutti, prima o poi dovranno per forza tornare a camminare sui piedi. È una semplice questione di tempo. Perciò in fin dei conti posso considerarmi fortunato: non ho visto il Pelé del 1958 perché non ero ancora nato. Tuttavia allora era un acrobata, uno di quelli che camminavano sulle mani: uno splendido funambolo diciottenne. Però ho visto il Pelé del 1970 che, invece, era tornato a deambulare sui piedi come i comuni mortali. L’ho visto “En vivo – Live” dallo Stadio Azteca, il 21 giugno 1970, quando il Brasile, diciamolo una volta per tutte, seppellì una splendida Italia. Di tutto quello che fece quel giorno, tra cui la celeberrima sospensione in aria che condusse all’1 a 0 e che strabuzzò Tarcisio Burgnich, ciò che mi rimane ancora impresso a distanza di così tanti è il passaggio con cui permise a Carlos Alberto di segnare il definitivo 4 a 1. Nel bel mezzo d’una ventina di corridori trafelati dall’altura, obnubilati dalla rarefazione dell’aria, Pelé ricevé palla da Jairzinho e si trovò davanti Burgnich. L’acrobata del 1958 avrebbe certamente infilato il celebre dribbling carioca, che d’altra parte Burgnich s’attendeva. Invece il Pelé del 1970 attese un momento immobile perché era certo che, alla sua destra, sarebbe arrivato qualcuno e Carlos Alberto, il capitano del Brasile più forte di sempre (dai: insieme a quello del 1958), giunse puntuale all’appuntamento.

  

E’ sempre un momento straordinario quando in uno sport di grande corsa si incontra un uomo che corre un poco di meno, ma che sa stare al mondo. Se, magari, il gol di Carlos Alberto poteva essere ridimensionato dal fatto che “insomma, eravamo tutti in attacco ed è stato troppo semplice uccellarci”, due settimane prima Pelé aveva già dimostrato che l’occhio e il cervello contano tanto quanto la giocoleria. Gli inglesi stavano tutti schierati in difesa: la cagnesca difesa dei campioni del mondo. Tostao ne rimbambì un paio, tra cui l’emblema Bobby Moore, e passò a mezza altezza a Pelé, che stoppò di petto e finse di dribblare, così Cooper che marcava Jairzinho fece un passo verso di lui. Era ciò che “O Rey” attendeva e, da fermo, mise il pallone giusto un metro e mezzo più in là: dove prima c’era Cooper e adesso c’era Jairzinho libero davanti a Banks.

 

Ora magari qualcuno sta pensando che sto raccontando le gesta d’un uomo che nel 1970 sopperiva col genio alla mancanza di benzina, ma esiste una piattaforma che ci consente di rivedere le immagini del passato. Nella semifinale contro l’Uruguay, Pelé arrivò di gran corsa per inseguire un passaggio di Tostao. Davanti gli si parò il grande Ladislao Mazurkiewitz: il miglior portiere del Mondiale. Pelé finse solamente di toccare il pallone e correndo aggirò Ladislao, mentre la palla proseguì intoccata la propria strada. Entrambi, la palla e il campione, si riunirono festanti più avanti e Pelé calciò in porta. La palla uscì di mezzo pelo, mentre il telecronista inglese di fronte a questo calembour mai visto strillava come un forsennato “What a genius!”, violando vergognosamente in questo modo il millenario embargo britannico nei confronti delle gesta dei calciatori sudamericani. Ecco, se devo ricordare Pelé voglio ricordarlo con questo gol mancato, ed è proprio una gran bella ironia della sorte.

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