Continuavano a chiamarla Dakar

Umberto Zapelloni

Il raid più famoso del mondo è pronto a ripartire il 31 dicembre dall’Arabia Saudita

Della Dakar ha ormai soltanto il nome. Un brand che continua a girare per il mondo. Dall’Africa al Sud America e ora là dove scorrono più denari che ovunque: in Medio Oriente. Il raid più famoso del mondo è pronto a ripartire il 31 dicembre dall’Arabia Saudita dove è arrivato nel 2020, un anno prima del Mondiale di Formula 1. In programma in questa 45esima edizione ci sono 14 tappe più un prologo (il 31 dicembre), 8.500 chilometri in tutto, 4.706 cronometrati per la classifica.

 

C’era una volta la gara che scattava da Parigi e arrivava a Dakar. Era “una sfida per quelli che partono. Un sogno per quelli che restano a casa”, come disse un giorno Thierry Sabine, l’uomo che la inventò, precipitato con il suo elicottero in Mali nel 1986. L’idea gli venne qualche anno prima quando si perse nel deserto mentre partecipava in moto al Rally Abidjan-Nizza.

 

Dal 1979 al 2007 è sempre scattata dalla Torre Eiffel per poi attraversare l’Africa fino alle spiagge del Senegal, dribblando di volta in volta i paesi più pericolosi, poi fino al 2020 è emigrata in Sudamerica, approdando quindi in Medio Oriente come la Formula 1, come il calcio, come tutti quegli sport in cerca del denaro di paesi che sfruttano lo sportwashing per ripulirsi l’immagine. 

 

     

Si parte dal Mar Rosso per arrivare sul Golfo Persico tra dune sabbiose, deserti e pietraie con quattro tappe nell’Empty quarter, il Quarto vuoto, il più grande deserto di sabbia del mondo. “Non ci sono persone, né cammelli, non c’è vita, nulla. Saranno quattro giorni tra le dune, nei quali le velocità medie non saranno superiori ai 40-50 chilometri orari. Per questo le tappe sono molto corte, non lo sarà la durata: avremo tappe su 4-5 ore di gara”, ha spiegato il direttore di corsa, David Castera. Sei le categorie previste: moto, quad, leggeri, auto, camion e classic.

 

Ottocentoventi i partecipanti divisi in 564 equipaggi, con 170 esordienti, 54 donne, 69 italiani. Due le grandi rivali per la vittoria, Toyota e Audi che dopo le 4 vittorie di tappa e i 10 podi dello scorso anno, rilancia la scommessa elettrica con la nuovissima RS Q e-tron E2. Peterhansel, Sainz senior (il sessantenne papà del pilota Ferrari che l’ha già vinta tre volte) ed Ekstrom andranno a caccia del successo sfidando Nasser Al-Attiyah, il dominatore dell’edizione 2022 con la Toyota che completerà la squadra con De Villiers e Al Rajhi. Ci sarà anche mister rally, Sebastian Loeb alla ricerca della sua prima vittoria nella Dakar con il BRX team Prodrive.

 

Ma il bello della Dakar è che se ne parla sempre più prima che dopo. È una gara che fa più notizia alla vigilia quando sfrutta il vuoto sportivo tipico di fine anno, poi alla fine toccherà a chi la vince cercare di prendersi un po’ di spazio, mentre a tutti resteranno comunque storie fantastiche da raccontare. Chi conclude una Dakar potrebbe camparci per un anno intero raccontando aneddoti, avventure e mostrando fotografie incredibile. Quando sente la parola Dakar si sgela anche chi è conosciuto come Iron Maury, il Maurizio Arrivabene oggi amministratore delegato uscente della Juventus, ieri team manager della Ferrari, ma da ragazzo sesto alla Dakar con l’amico Seppi e un camion Mercedes. Era il 1987. Davvero una vita fa, quando alla Dakar dominavano i motociclisti italiani come Edi Orioli (la vinse 4 volte quando si navigava con la bussola non con il gps a bordo di ogni mezzo a due, quattro o otto ruote oggi), Franco Picco o Fabrizio Meoni l’ultimo a vincerla nel 2002 prima di morirci tre anni dopo. Perché la Dakar è anche questo. Le statistiche ufficiali parlano di 76 concorrenti morti in gara dal 1979. Perché la sicurezza assoluta qui non potrà mai esistere.

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