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Missione Dakar. Perché la corsa nel deserto continua a resistere a tutti i suoi detrattori

Giovanni Battistuzzi
Sabato 2 gennaio la Dakar riparte, ancora, nonostante tutto, per la trentottesima volta. Lo scenario sarà ancora una volta il Sud America: il via a Buenos Aires, arrivo a Rosario. Quest'anno hanno provato a farla saltare ambientalisti e Ong.

Una corsa così "non dura, non può durare". 1979. E poi. "Troppo pericolosa, non si può continuare". 1981. Ancora. "E' un omicidio a due e quattro ruote. Va abolita e dimenticata". 1991. Di più "E' un insulto per l'Africa, si tratta di neocolonialismo". 2002.

 

Sabato 2 gennaio la Dakar riparte, ancora, nonostante tutto, per la trentottesima volta. Nonostante le critiche – politiche, ambientaliste, terzomondiste –, le minacce, i tentativi di boicottaggio, incidenti e decessi. La Dakar riparte, anche se ancora lontana dal suo scenario più suggestivo, l'Africa, che manca ormai dal 2007, dopo l'annullamento dell'edizione 2008 per i pericoli in Mauritania e le minacce di attentati islamisti.

 

Si riparte dal Sud America, Buenos Aires, partenza, Rosario, arrivo. In mezzo Ande e deserti, tanta Argentina, un po' di Bolivia e la certezza che comunque vada "sarà una faticaccia". Parola di Sebastian Loeb, nove volte campione del mondo rally alla sua prima Dakar. Correrà su Peugeot che su di lui punta per interrompere il dominio nippo-tedesco che dal 2001 non lascia spazio a nessuno: prima Mitsubishi, poi Volkswagen, infine Mini. Un problema per la corsa più francese del panorama motoristico dopo la 24 ore di Le Mans.

 

Poco importa infatti se fa Parigi non si parte più dal 2001 e dalla Francia dal 2004. La Dakar è transalpina per storia, tradizione e modo di intendere la corsa. E soprattutto per autonarrazione. Perché la Dakar è stata prima di tutto racconto. Nasce dalle parole di Thierry Sabine dopo essersi perso nel deserto sulla sua moto nel rally Abidjan-Nizza del 1977. "Ho rischiato di lasciarci le penne. Mi è andata bene, ma per fare un raid ci vuole più organizzazione. Ci vogliono i francesi". Dalle parole ai fatti. Sabine decide di insistere sulla sua idea, la racconta, la narra, la declama a tutti i suoi conoscenti, convince sponsor e piloti a parteciparvi. Nel 1979 si inventa la Parigi-Dakar, dalla Francia all'Africa e non più viceversa, organizzazione e gestione mediatica dell'evento nello scenario più folle per correre, il deserto.

 

Da allora è passata per successi, di pubblico e di sponsor, e tragedie, 28 i morti in corsa, boicottaggi e proteste, cambi di percorsi e continenti. Nulla è però riuscito a eliminarla, a sradicarla, perché "la Dakar è l'unica follia sensata del mondo: non può non esserci. Il giorno che l'elimineranno vorrà dire che l'uomo avrà perso il senso di esistere e si sarà definitivamente rincoglionito su un divano", ha detto nel 2000 ai microfoni di Eurosport James Coburn, Oscar nel 1999 e nato come Clint Eastwood nei set western di Sergio Leone.

 

[**Video_box_2**]Ancora l'uomo non si è "definitivamente rincoglionito" e la Dakar continua. Al mittente è stata rimandata anche la lettere di diversi gruppi ambientalisti mandata al nuovo presidente argentino Mauricio Macri per chiede l'annullamento della corsa perché "va a rovinare l'ecosistema andino". Richieste nemmeno prese in considerazione dalla Casa Rosada, come non sono state prese in considerazione quelle avanzate da alcune Ong europee che denunciavano come le risorse utilizzate per l'organizzazione del rally-raid potevano essere impiegate per aiutare la popolazione. Dall'entourage del presidente argentino è stato inviato un report della Saea, un'agenzia di analisi della salute delle economie sudamericane con sede a Montevideo in Uruguay, che attesta come la Dakar generi un fattorato, tra corsa e indotto di quasi novecento milioni di dollari, l'80 per cento del quale a favore dei paesi lungo i quali la corsa si snoda.

 

Tanto basta per spegnere critiche e boicottaggi.

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