Foto Ap, via LaPresse

Il Foglio sportivo

Un Mondiale troppo social

Emmanuele Michela

La voglia del tutto e subito rischia di bruciare le emozioni della Coppa del mondo

Pochi minuti dopo l’inizio della gara della Germania contro il Giappone ai Mondiali qatarioti, la foto dei calciatori tedeschi con la mano alla bocca – protestavano contro il divieto di indossare la fascia arcobaleno – girava ormai incessantemente sulle bacheche Facebook o tra i feed di Instagram.

 

Qualcuno, nella fretta di dover trovare definizioni adatte a quel gesto, o nell’ansia di non farsi scappare l’occasione di assegnarci l’etichetta più roboante, ha scomodato perfino Messico ’68 e il pugno al cielo di Tommie Smith e John Carlos, i due statunitensi che, sul podio della finale 200 metri piani, protestarono in difesa dei diritti dei neri. Se la foto dei tedeschi entrerà nei libri come quella dei due velocisti americani sarà la storia a dirlo – permettete qualche dubbio, non fosse altro per la diversità dei rischi presi con quel gesto di protesta, quelli corsi da Smith e Carlos allora da quelli più mainstream dei tedeschi oggi – intanto vale la pena però notare quanto il flop mondiale dei ragazzi di Flick abbia portato altrettanto rapidamente nel dimenticatoio la foto delle mani alla bocca, sui social diventata sponda impietosa per meme e post ridicolizzanti.

 

Facebook dà tanto in fretta quanto in fretta poi toglie, e il Mondiale presente ne è stata la più chiara rappresentazione. Non c’è gesto, immagine o istante cult che non faccia il giro del mondo in un attimo: si pensi alla palla dentro o fuori di Giappone-Spagna, l’esultanza dell’australiano Mitch Duke col figlio, i tifosi nipponici che ripuliscono le tribune a fine gara o la grande festa del Marocco. A ondate storie e immagini montano, per poi crollare. Ma c’è di più: la rapidità di informazione e l’essenzialità del linguaggio dettano una facilità nell’etichettatura dei fenomeni, che mai come in questi Mondiali risulta essere nauseabonda.

 

Non è poi una scoperta di grande genio – dire che i social siano il regno della superficialità e dell’istante è perfino banale –, ma vale la pena guardare questi eccessi, che nascondono il bisogno istintivo del pubblico sportivo di cercare nel calcio eroi, simboli o momenti storici. Ricordate le prime gare del Mondiale? In pochi giorni avevano “già vinto” la loro Coppa del mondo i sauditi vittoriosi sull’Argentina, poi l’Iran che non cantava il proprio inno, sino ai tedeschi con la mano sulla bocca. Ogni episodio – calcistico e non – sembra avere sempre lo stesso valore catartico, assoluto, col peso di un macigno, pur apparendo spesso un’imposizione linguistica sulla realtà: viaggia su bacheche e cellulari al ritmo di like e condivisioni, ma dopo poco decade – l’etichettatura è andata in tilt con la protesta iraniana quando i calciatori, nei match successivi, hanno invece ripreso a cantare l’inno nazionale, a testimoniare una realtà ben più complessa e indecifrabile di quanto facilmente la vogliamo ingabbiare in schemi occidentali.

 

D’altra parte, i social sono diventati anche il luogo per una tendenza diversa e più profonda, che si innesta su questa etichettatura e la estremizza: lo storytelling calcistico. Tanto sapeva stupire questo genere, qualche anno fa, tanto sapeva sfuggire alla pura logica cronachistica dell’informazione, quanto oggi pare oggettivamente esagerato, moltiplicato all’ennesima potenza su pagine social tutte uguali a sé stesse. Di romanzi sportivi ne leggiamo su ogni calciatore, che su Facebook immancabilmente diventa eroe. Così abbiamo letto agiografie sul portiere del Messico che diventa fenomeno solo ai Mondiali, consacrazioni di Messi e dei suoi record, Giroud che segna ancora a 36 anni e altre articolesse zeppe di retorica e aggettivi mai usati. Se si parla di Argentina non puoi non citare il tango e Borges, se si parla di nazioni africane non si può non dire che sono in ritardo calcistico di anni ma chissà cosa sarebbe stato senza il colonialismo, se si parla di Serbia non si può trattenere un pensiero su quanto sarebbe stata forte la Nazionale dell’ex-Jugoslavia, e via  altri luoghi comuni.

 

Insomma, vi è un incedere della narrazione dei Mondiali che sublima la stessa realtà dei Mondiali, la rende iconica e per questo, in fin dei conti vuota, stopposa, sorda allo stupore. Sappiamo già che Mbappé è il fenomeno di questi Mondiali, senza nemmeno poterci gustare ciò che riuscirà – o non riuscirà – a fare da qui sino alla finale. Sappiamo già che la Nazionale brasiliana è perfetta perché quest’anno ha pure i portieri migliori al mondo, e se trionferà lo farà per Pelé, sappiamo già che il Portogallo se vince sarà per salutare al meglio Cristiano Ronaldo finito addirittura in panchina, sappiamo già che gli inglesi sono maledetti e cadono sul più bello da quando hanno vinto un Mondiale con un gol fantasma più di 50 anni fa.

  

È il destino inesorabile che tocca allo sport più popolare quando da azione diventa post, da meraviglia si fa antologia di quella stessa meraviglia, da moto di stupore si trasforma in oggetto di condivisione? Quando la parola vince sull’esperienza c’è sempre qualcosa che non funziona. Ma una domanda sulla natura stessa dei contenuti non può venire meno: davvero è impossibile raccontare il calcio senza inseguire la piatta viralità bensì con la pazienza dell’approfondimento, la distanza delle storie belle, la linfa complessa della realtà?

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