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qatar 2022 - facce da mondiale

La cometa Guillermo Ochoa

Francesco Gottardi

Il portiere messicano è al suo quinto Mondiale, il terzo giocato da titolare. E fa parte di quel ristretto circolo di giocatori che in odor di Coppa del mondo brillano di anomala luce propria

Era scritto. E chi non crede nel fato, si affidi all’aria mondiale. Robert Lewandowski è l’attaccante più continuo del decennio: ha vinto quasi tutto e ciò che non ha vinto (il Pallone d’Oro) l’avrebbe meritato. Guillermo Ochoa, portiere, non ha nemmeno mai giocato in Champions League. Ma avvicinandosi al dischetto, il capitano della Polonia ha il passo pesante. La testa bassa. Mentre il riccioluto messicano, saltellante tra i due pali, sembra un gigante. Breve rincorsa, rigore ineluttabile: come se il pallone fosse un magnete piede-guantone. È la Coppa del mondo, saturnalia del calcio. Dove Lewa si astiene dal gol e Memo si trasforma puntualmente in un arquerazo – portierone, così disse Maradona – da antologia.

 

La storia di Ochoa è un mix di talento e ascendente, metodo scientifico e calendario azteco. “Ogni giorno, nell’ultimo mese, ho visionato più di 50 rigori a video”, ha dichiarato lui dopo il pareggio al debutto contro la Polonia. “E ho studiato il modo di battere di Lewandowski. Anche se alla fine non sai mai dove buttarti”. Allora entra in ballo quel 13, inusuale per un portiere, fieramente sfoggiato sulla propria maglia. Memo – “Guillermo mi chiama solo papà quando si arrabbia” – ha un debole per la numerologia: è nato venerdì 13 luglio 1985, il suo esordio ai Mondiali risale al 13 giugno 2014, in occasione di una partita col Camerun iniziata alle ore 13. E a che minuto poteva mai essere il rigore di Lewandowski, il primo parato da Ochoa in un Mondiale? Claro: al 13 del secondo tempo. Va aggiornato il cv.

 

Perché in un amen, è successo quel che in molti profetizzavano. Tra le fantasie più care al lessico calcistico spicca l’epiteto di ‘meteora’, proprio di quel giocatore che dal nulla sfodera una performance – massimo una stagione – straordinaria per poi tornare nel dimenticatoio. Ecco. Restando in ambito astronomico, Ochoa è semmai una cometa con periodo orbitale di quattro anni. E fa parte di quel ristretto circolo di giocatori – più o meno leggendari: da Roger Milla a Miro Klose, fino all’odierno Enner Valencia – che in odor di Mondiali brillano di anomala luce propria. L’epopea di Memo è iniziata subito dopo quella vittoria sul Camerun nel torneo brasiliano. A Fortaleza, il Messico sfida i padroni di casa. Che spingono, attaccano – ancora lontana l’ombra del Mineirazo – ma non sfondano: Ochoa para ogni tiro, tra cui due interventi eccezionali su Neymar e Thiago Silva. All’improvviso, tutti si accorgono di quel portiere con la fascia ai capelli. Il Brasile sgomento mette in giro la voce che abbia perfino sei dita – ovviamente no, ma tiene molto a un paio di guanti personalizzati. Voliamo in Russia, nel 2018: altro partidazo a porta imbattuta e storica vittoria sulla Germania. Oggi la storia si ripete.

 

Ma nel frattempo, tra un exploit e l’altro, cosa ne è stato di Ochoa?

 

Qui emerge un quadro di pochi alti e molti bassi, che si incastra coi capolavori quadriennali semplicemente perché è andata così. Partiamo dal presupposto che Memo in patria è un idolo, da oltre 400 presenze con il Club America di Città del Messico e 133 in nazionale. Con ‘El Tri’ ha vinto quattro Gold Cup – l’equivalente nordamericano dei nostri Europei – e un bronzo alle Olimpiadi di Tokyo 2020. Extra campo, la storia famigliare aiuta: suo zio è il fondatore di Las Tortas Don Polo, un’istituzione fra le pasticcerie della capitale che ha contribuito a coniugare le parate del portiere con i palati della gente.

 

Ma si sa, il grande calcio è nel vecchio continente. E Ochoa, cresciuto attaccante ma reinventatosi tra i pali sognando Peter Schmeichel, ha sempre saputo dove voleva andare. “In un top club”, annunciava alla Fifa nel 2008. “Seguo la Juve e il Milan. Poi Bayern, Man United, Real e Barcellona: qualunque di questi sarebbe il massimo”. Non succederà mai. Nel 2010 il suo trasferimento al Fulham salta per una fuga di notizie. Un anno più tardi sembra destinato al Psg, ma viene trovato positivo all’antidoping: si scoprirà poi che i valori anomali erano dovuti a un’intossicazione alimentare da carne di manzo. Ma l’immagine è compromessa. Al pioniere Ochoa, primo portiere messicano in Europa, non resta che accasarsi al modesto Ajaccio. Tre stagioni di grandi parate e una valanga di gol subiti – 184: questo comporta la lotta per non retrocedere. Il 2014 è l’anno dei Mondiali brasiliani, rampa di lancio perfetta per un 29enne. In questi casi conta avere il procuratore giusto: Ochoa invece finisce al Malaga a fare il secondo di Idriss Kameni. Biennio da incubo. Poi Granada e Standard Liegi, dove vince una Coppa del Belgio, suo unico trofeo europeo. Nel 2018 lo cerca il Napoli, ma De Laurentiis decide di non giocarsi lo slot extracomunitario per un portiere. Dodici mesi dopo, Memo fa ritorno in Messico. E vi rimane.

  

Sabato sera un altro cerchio che si chiude, al suo quinto e probabilmente ultimo Mondiale. Nel 2006 il giovane Ochoa, terzo portiere, aveva assistito dalla panchina all’eliminazione dei suoi per mano dell’Argentina agli ottavi – è in questa fase che da sette edizioni a questa parte termina il torneo del Messico. Copione identico nel 2010, quando in realtà Memo confidava in una maglia da titolare. Ora siamo soltanto alla seconda partita del girone. Ma battere l’Albiceleste, complice la sorpresa saudita, di fatto vorrebbe dire già eliminare Messi. La caduta del dio, per mano del portiere ciclicamente caro agli dèi: parare per credere. “Il mio sogno è battere il Brasile in finale di Coppa del Mondo”, diceva da ragazzino. A modo suo, non ci è andato così lontano.

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