chi tenere d'occhio al Giro

C'è una banda di briganti pronta ad assaltare il Giro d'Italia

Giovanni Battistuzzi

Sarà davvero una sfida tra Richard Carapaz e Simon Yates. Ecco chi potrebbero essere i protagonisti del Giro d'Italia 2022 e perché la lotta per la classifica generale potrebbe non essere il solo motivo d'interesse

Può capitare a volte che nell’aprire una scatola che si era messa in disparte, posizionata nel ripostiglio e lì rimasta chissà quanto tempo, a risaltare sia più ciò che manca che il contenuto effettivo. Una questione di aspettative. Si tende sempre a sparare, nell’atto dell’apertura, che quello che si sta cercando sia lì, proprio lì, e non altrove.

 

Il Giro d’Italia è una scatola in uno sgabuzzino che ogni anno non possiamo non aprire, tipo quella che contiene gli addobbi natalizi o l’armamentario del barbecue. E quando non c’è lì dentro quello che si spera di trovare ci si rimane un po’ male e si finisce per concentrarsi su quello che manca invece di osservare davvero il contenuto della scatola.

 

Va da sé che nello scatolone del Giro non trovarci Tadej Pogačar e Primoz Roglic, gli addobbi più graziosi di quell’albero colmo di doni che è una corsa a tappe di tre settimane, lascia sempre l’idea che possa mancare qualcosa. Anche perché non saranno i soli a non esserci. Fare la lista degli assenti però non agevola la comprensione di quello che si ha davanti, si rischia di fare confusione, non accorgersi di cosa la corsa potrà offrire. Che, dovrebbe essere – ma le conferme arriveranno chilometro dopo chilometro – molto più intrigante di ciò che si può pensare.

  

Perché l’edizione 2022 del Giro d’Italia è dura, molto dura (oltre cinquantamila metri di dislivello, parecchi in più delle ultime edizioni), ma soprattutto sarà assai complicata da gestire. A eccezione di forse tre tappe (quella di Reggio Emilia, di Cuneo e di Treviso) tutte le altre nascondono più di un tranello e potrebbero dare dei problemi alle due squadre più attrezzate per controllare la corsa: la Ineos-Grenadiers e la Jumbo-Visma, quelle di Richard Carapaz e Tom Dumoulin (o Tobias Foss? gli ultimi due anni per Dumoulin sono stati complicati, ha corso poco, si è preso diversi mesi di pausa per capire se aveva ancora motivazioni per correre ad alti livelli). Sono loro, l’equadoriano e l’olandese, gli unici assieme a Vincenzo Nibali ad avere già vinto un Giro d’Italia.

  

Il primo è il grande favorito. Non potrebbe essere che così. In salita va forte, quando ha i gradi di capitano difficilmente ha giornate storte, ha la squadra più forte al suo fianco: Richie Porte, Pavel Sivakov, Jhonatan Narváez, Jhonatan Castroviejo vanno parecchio forte ovunque, Salvatore Puccio e Ben Swift sono due corridori tenaci e intelligenti, Ben Tulett ha tutte le caratteristiche per diventare uno dei protagonisti del ciclismo del futuro.

 

A dar retta ai bookmakers il grande rivale di Carapaz dovrebbe essere Simon Yates. Perché di corridori come Simon Yates ce ne sono pochi in gruppo, perché è uno che su percorsi del genere sa tenere testa a tutti, perché ha dimostrato, in questi mesi, di andare forte, perché questo, dicono, non può che essere il suo anno buono: ha l’età giusta, 29 anni, e soprattutto ha coscienza di cosa non fare per vincere.

 

L’età giusta però è ormai un concetto talmente volatile nel ciclismo degli ultimi anni che sembra aver perso di senso. L’ultima generazione di corridori che si è affacciata al professionismo non segue più il percorso classico di maturazione, alle grandi corse ci arrivano già pronti e motivati e con l’idea, parecchio estemporanea, di prendersi tutto e il prima possibile. João Almeida è uno di loro, perfetto figlio del suo tempo. Al primo Giro d’Italia che ha corso s’è fatto quindici giorni in maglia rosa. Nel 2021 è finito sesto, ma solo perché s’era preso un coccolone sotto la pioggia verso Sestola, quando doveva essere soprattutto l’ultima ruota in salita di Remco Evenepoel, poi non l’hanno più staccato. Probabilmente, eccezion fatta per Davide Formolo, nelle tappe di montagna se la dovrà vedere da solo, ma non sarebbe la prima volta. C’è abituato e ha dimostrato che non è un problema. Soprattutto è uno che non ha paura di scattare, di andare all’attacco.

 

E attaccare quest’anno, in questo Giro d’Italia, con le tappe che dovranno affrontare i corridori da venerdì 6 a domenica 29 maggio, potrebbe essere meno complicato che in altre edizioni. Anche perché quello che è considerato il normale corso degli eventi, ossia la sfida tra i migliori della classifica generale che di solito è prerogativa delle tappe di alta montagna, potrebbe essere stravolto. Arrivare ben prima, oppure essere complicato da altri eventi, non del tutto pronosticabili.

 

Un po’ per la conformazione delle tappe, che chiamano a gran voce le fughe (quelle di Potenza, di Napoli, di Jesi e di Torino sono un su e giù continuo, che danno la possibilità di immaginare e realizzare la mattata). Un po’ perché, oltre Ineos e Jumbo, le squadre più toste e forti quando la strada sale non hanno un favorito con obbligo di condurre la corsa: Vincenzo Nibali e Miguel Angel Lopez, che guidano l’Astana, né Wilko Kelderman e Jai Hindley, punte della Bora, possono contare su gregari di alto livello. Un po’ per la presenza al via di una banda di briganti della bicicletta che potrebbero ingarbugliare parecchio le cose e scompaginare i piani degli uomini che vorrebbero giocarsi il podio di Verona.

 

Una banda di briganti della bicicletta capitanata da Mathieu van der Poel, che a questo Giro  d’Italia è venuto con l’intenzione, già palesata, di vincere qualche tappa, vestire almeno un giorno la maglia rosa e, ma questo non l’ha detto – ma non lo dice mai, eppure lo fa –, fare un po’ di confusione. Mathieu van der Poel è uno che attacca quando gli va, e gli va spesso, che una corsa a tappe di tre settimane non la vincerà mai, ma che potrebbe essere l’ingranaggio difettoso, e proprio per questo magnifico, capace di stravolgere il giochino degli uomini di classifica. Perché accanto a lui ci sono un manipolo di rivoltosi che hanno pochi timori e nessuna paura. E che, soprattutto, sanno sfruttare bene le dinamiche di corsa quando sono complesse. Gente che pensa alla giornata come Magnus Cort e Biniam Girmay, Mauro Schmid e Andrea Vendrame, Alessandro De Marchi e Thomas De Gendt. Gente che potrebbe essere il contorno migliore, gli aiutanti (nemmeno tanto) improvvisati di altra gente che potrebbe allungare quella giornata anche a gran parte del Giro. Gente dalla fuga facile come Thymen Arensman e Mauri Vansevenant, Lorenzo Fortunato e Lennard Kämna, Attila Valter e Harm Vanhoucke. O gente che non ha interesse ad aspettare, che sa, gli ultimi anni glielo hanno insegnato, che nulla è poi così schematico e che a volte la rivoluzione la si può davvero fare. Gente come Romain Bardet e Guilleume Martin, Alejandro Valverde e Bauke Mollema, o anche Giulio Ciccone e, soprattutto, Mikel Landa, che ormai ha capito che il landismo è una filosofia del rimando, ma che prima o poi, per non restare utopia, deve manifestarsi, farsi sentire.

 

Mikel Landa ha al suo fianco compagni affidabili e parecchio in forma, Jan Tratnik su tutti, ormai elevatosi da passista tignoso a brigante professionista. Di luoghi per le imboscate ce ne sono e lo sloveno è diventato un maestro nello sfruttare le occasioni.

 

Un giro di tre settimane è comunque corsa tattica, pensare che a ogni tappa possa capitare il finimondo è pure utopia. Ci saranno giornate stanche, altre più movimentate. Toccherà scegliere quelle giuste per fare un po’ di rumore.

 

Prima dell’avvio di Budapest, questo Giro d’Italia è un puzzle complicato da decifrare. È una macchia di colore che fa vedere a ognuno ciò che vuole vedere. Lascia soprattutto la sensazione la lotta per la maglia rosa potrebbe non essere la sola cosa appassionante. O che potrebbe non essere qualcosa riservata ai soliti noti.

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