(foto LaPresse)

verso la retrocessione

L'esonero di Paolo Zanetti è il tramonto del Venezia

Enrico Veronese

Era stato l'artefice del ritorno in serie A dopo vent'anni. Adesso una società più impegnata a trasmettere una patina hipster che a investire l'ha fatto scendere dalla giostra

Scende il sole, una volta in più, sopra le impalcature di Porto Marghera. Dall’isola, a quest’ora, la terra è un pianeta in mar, tuto infogà: l’arancio di Mestre e la riga nera delle fabbriche anche oggi affondano a piombo nel verde laguna. Un giorno come l’altro, ma senza più Paolo Zanetti alla guida del Venezia: il tecnico vicentino è stato esonerato dopo otto sconfitte consecutive e la retrocessione in B praticamente certa se non per la matematica, almeno per il calendario (Juve e Roma in trasferta, più due scontri diretti).

Eppure intatto permane l’apprezzamento della tifoseria, tanto che la cacciata del mister è arrivata inopinatamente, data la situazione ormai compromessa: nei paraggi dello stadio Penzo, Zanetti è e resterà sempre l’uomo che ha riportato l’Unione in serie A dopo vent’anni, quasi per caso ma non senza merito e gioco. Artefice e al tempo stesso parte di un congegno pianificato a più lunga gittata, è rimasto in panchina a dispetto dei corteggiamenti altrui e del mercato: molti pilastri della sofferta promozione hanno dovuto ripiegare di nuovo nella cadetteria (Forte, Di Mariano, Taugourdeau, Dezi), altri sono rimasti ai margini come capitan Modolo, taluno - leggi Mazzocchi - è passato a rafforzare una diretta rivale come la lanciatissima Salernitana. E attorno agli Aramu, ai Ceccaroni, ai Črnigoj ha germinato un vorticoso bailamme di civetteria hipster, americano dalla presidenza Niederauer in giù: al boss, soprannominato Paul Kalkbrenner da una piacevole pagina locale di storytelling sportivo, càpita di bere lo spritz con gli ultrà in via Garibaldi prima delle partite casalinghe. Che se uno ci pensa, non ci può credere.

In pochi mesi l’intera percezione esterna del calcio a Venezia cambia radicalmente: ecco il brand internazionale senza main sponsor, salvo ripiegare (mesi dopo) verso una dignitosa quanto graficamente inguardabile toppa dall’hinterland. Ecco il logo inedito dalle ali di angelo, lo studio newyorkese Fly Nowhere recapita quattro divise di gioco, manco la squadra dovesse affrontare le coppe: nero stellata come San Marco, bianca dei suoi mosaici, prove di pantone nel muro turchese e la più bella, rosso veneziano a damaschi. Nessuna con evidente attinenza alla ragione sociale, i colori fusi nell’Ottantasette: e da queste parti, per motivi del genere, erano pronti alla sommossa. In soffitta le iconiche righe orizzontali che tanto piacevano, pure se col verde più opaco dell’arancio: la maglia con cui Riccardo Bocalon, nato dirimpetto al campo di gioco, condannò il Cittadella a un altro anno di B. Anche lui, da subito, ritenuto inadatto alla serie A nonostante i passati exploit in coppa Italia: è finito al Trento, playout di serie C, a masticare una vendetta amara contro i globetrotter dei piani alti.

Le riviste di streetwear premiano l’azzardo, ma quanti saranno davvero i residui hipster di Bedstuy a indossare una divisa lagunare sotto il blazer, solo perché copre Tanner Tessmann o Gianluca Busio dal college interetnico di Greensboro? Avanti con il portfolio patinato delle foto della promozione, Venezia si presta più di ogni altro brand a deformazioni brillanti e internazionali: complice un mercato da rabdomanti, col lanternino algoritmico a caccia di scommesse, meglio se giovani e alte. I terreni di allenamento al Taliercio si fanno consolato islandese tra Football Manager e “Chi l’ha visto?”, infine la corsa ai ripari di gennaio, con vecchi marpioni e reduci da seri infortuni.

Ciononostante, Paolo Zanetti e il suo staff sono rimasti saldi al proprio posto, a cercare una via d’uscita attraverso gli schemi e la rotazione delle sorprese: per buona parte del campionato il rischio è valso la candela, salve amnesie nei minuti di recupero in dare (Salernitana, Spezia due volte, addirittura Inter) e in avere, come i pareggi agguantati a Cagliari e Genova. Poi, l’incubo della débâcle interna contro l’Hellas Verona: da 3-0 a 3-4, una roba che avrebbe scosso chiunque. E infatti, da allora, raramente la truppa arancioneroverde si è ripresa: una franca vittoria a Torino, qualche raro pareggio interno, pedine spostate come in un gioco del quindici per trovare la soluzione, infine la resa prima morale e poi effettiva.

Più che lo stadio allargato in tempi record per non essere costretti a giocare a Ferrara, con la gigantesca scritta Venezia che campeggia nelle vedute aeree della tribuna Solesin dove soffia la bora, nella memoria collettiva di questa strana stagione mal conclusa resteranno la passione rinfocolata degli occasionali in perenne standby, i buoni numeri anche in trasferta nonostante la curva sia frammentata e colma di ragazzini, senza più i grandi striscioni unificanti. E il settore ospiti quasi sempre pieno nonostante i prezzi ingiustificati dei biglietti nelle ultime giornate, l’assalto alle osterie, il corteo collettivo attraverso i Giardini prima della partita. Chi arriva da terra e attraversa tutta la lisca del pesce, chi sbarca dal Lido in battelli gonfi come tramezzini: il welcome point è nato tardi a Sant’Elena, tra i giardini con playground e i lettori della domenica seduti in panchina, la Biennale e i gabbiani. Quanto di più vicino all’estetica urban brunch cosmopolita, vidimata dalla proprietà del club in questo pezzo di sport cittadino non appaltato al sindaco Brugnaro: e ora, cosa succederà?

Mentre i giocatori sono parsi sinceramente sgomenti, al termine dell’ultimo k.o. contro l’Atalanta, quando sono stati richiamati sotto la gradinata sud per ricevere critiche anche immeritate (il livello è quello che è, nell’insensata serie A a venti squadre), gli strali più feroci sono tutti per Alex Menta, il delegato USA al calciomercato “creativo”. C’è chi paventa l’addio di una venezianità in bilico, con le possibili partenze del castellano Paolo Poggi e del giudecchino Mattia Collauto, bandiere prima che dirigenti; quanto al “progetto”, forse ha scalato le stelle troppo presto, e magari un altro anno di consolidamento nella categoria inferiore potrà giovare per dare gambe e struttura a ciò che è parso finora un esperimento di laboratorio. Paolo Zanetti, dal canto suo, è dato in rotta verso altri lidi giochisti, forse nemmeno in serie A: l’augurio è che incontri direttori sportivi con budget adeguati allo sforzo, pazienza di aspettare l’altalena, ambiente che vive alla giornata e nessun fantasma con cui fare i conti.

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