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Spalletti, il Napoli e quel destino comune di smarrirsi in zona scudetto

Enrico Veronese

L'allenatore toscano anche quest'anno ha visto sfuggire l'occasione di vincere il campionato nelle ultime partite stagionali. Un copione che si è ripetuto

In cuor suo, al termine di Empoli-Napoli finita 3-2 dopo il doppio vantaggio partenopeo, Luciano Spalletti anziché salire sopra il pullman per l’aeroporto avrebbe imboccato a piedi la via che dalla città dei carciofi porta alla sua Certaldo - trenta chilometri scarsi attraverso strade bianche contornate dagli agriturismi di proprietà inglese - smoccolando senza soluzione di continuità, proprio come il Mario Cioni di Benigni. Perdere ci sta, ci mancherebbe, ma è il modo che ancora offende: fino a dieci minuti dalla fine della partita la squadra azzurra era saldamente in corsa per la lotta scudetto. Poi il blackout, non il primo della stagione ma quello definitivo: un tòpos, per l’allenatore toscano, che nonostante i flop rimediati qua e là alla guida di compagini prestigiose e attrezzate conta sempre (non si sa come) un discreto numero di vedove. Ingeneroso, certo, incolpare solo lui per mosse tattiche o sostituzioni: anche se scopre l’acqua calda e non insegna calcio da tempo, almeno alterna due schemi in base alla posizione dello Zielinski o Elmas di turno. Ma se Insigne (Nazionale a parte) da quando ha firmato per Toronto ha ripreso a segnare e giocare benino, Osimhen spesso la risolve quando non è fuori, il coccolato Lobotka non esce più dagli undici, Koulibaly raramente fallisce un intervento e pure Mario Rui è cresciuto. Non bastano le assenze (l’importanza di Di Lorenzo è sottovalutata), la rosa appena esigua e la papera di Meret a completare il quadro dell’ennesimo rimescolamento di stomaco per Aurelio de Laurentiis: anche con Sarri, Ancelotti e Gattuso alla guida, il Napoli andò in crisi nel momento topico della stagione, perdendo l'occasione di uno scudetto - spesso in casa - contro avversari da zona retrocessione. E quasi sempre nello stesso periodo dell’anno, la primavera in fiore: di fronte a formazioni coperte, o alla provvidenza del caso fortuito, i favoriti tra gli outsider si smarriscono davanti agli episodi avversi, forse spremuti oltre il massimo dal punto di vista fisico. E pèrdono male: prima della fatale Empoli ci sono stati l’exploit viola e la sconfitta con la Roma, il colpo di mano di Giroud e la valanga blaugrana. Inframmezzate, certo, da prestazioni autorevoli e affatto confusionarie, che lasciavano intendere tutto l’opposto: anche questo tratto non è nuovo in Spalletti, uno che a Empoli ha concluso la carriera da calciatore e iniziato quella in panchina.

 

Gira in questi giorni un’immagine di trent’anni fa, ancora coi capelli e balia del giovane centravanti Montella: anche allora Lucio, come lo chiamano gli intimi, vestiva una faccia tirata da occasione al vento. La sua storia, se si esclude la parentesi di San Pietroburgo, è zeppa di chance e di onte: nel 2008, con la Roma riplasmata dal suo 4-2-3-1 (Perrotta prima, e poi Nainggolan, da falso trequartista di rottura), andò a 45 minuti dallo scudetto prima che Ibrahimovic sotterrasse il Parma nel diluvio del Tardini. Ma come dimenticare le sette tacche dell’Old Trafford, la resa di Roma-Porto al preliminare di Champions, il 4-1 sul groppone di Bergamo?

 

Impietoso, come sempre, il web dei tifosi e degli Autogol ci marcia, bollandolo di irrequieto e instabile: fioccano le .gif mentre sbrocca in conferenza o in panchina, tipico di chi non riesce a ricamarci sopra una filosofia. Eppure, avercene di Spalletti: persona vera incapace di fingere, ruspante Paperino di provincia che nessuna metropoli a nessuna latitudine può cambiare. E pure la sfortuna di trovare sempre qualcuno davanti che i colpi li attutisce meglio, fino alla prossima rivoluzione.

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