(foto EPA)

oltre lo sport

A noi italiani il professionismo piace poco, guardate Ronaldo e Draghi

Roberto Perrone

L’amore mai sbocciato con il campione portoghese ex Juve dice qualcosa del nostro paese
 

Ahinoi, l’Italia è il paese che non ama i grandi professionisti. Da Mario Draghi, che è italiano ma ha un po’ la faccia da straniero (anche se al ricevimento per l’Italia campione d’Europa apostrofò Donnarumma con un romanissimo “’ndo stai?”), a Cristiano Ronaldo che è straniero e non è stato tanto in Italia, però ha lasciato il segno: 101 gol in tre anni alla Juventus. Lo spunto per la riflessione viene proprio dalla parabola di CR7. La parola più ricorrente, anzi l’unica, riferita alla sua esperienza italiana è “fallimento”. L’assioma: era stato ingaggiato per vincere la Champions League, non c’è riuscito, quindi ha fallito. C’è un evidente godimento, poi, nel rimarcarlo, sintomo dell’idiosincrasia nei confronti del professionista e del piacere che proviamo nel constatarne la debacle. La seconda critica l’ha sintetizzata l’ex compagno, il capitano della Juventus e della Nazionale Giorgio Chiellini: “Cristiano ha bisogno che la squadra giochi per lui”. Il secondo capo d’accusa: egoismo. Ronaldo, poi, non appare empatico. Non dà confidenza, ma non è uno snob. Il suo migliore amico alla Juventus, non era uno dei “senatori”, bensì il terzo portiere, Carlo Pinsoglio. 

La vicenda di Ronaldo è significativa non solo per l’ambito sportivo. Come sempre, il calcio è lo specchio della nostra società. In questo paese non giudichiamo con il criterio dell’efficienza, ma con quello del tifo. Non amiamo chi fa bene il suo lavoro con grande serietà, ma chi ci conquista solleticando le nostre idee. Mi viene in mente quando Mario Draghi, all’inizio della sua avventura come primo ministro, veniva criticato perché parlava poco, spiegava poco. Così, nel calcio, dai giornalisti ai tifosi tutti amano chi offre manifestazioni di affetto/effetto, tipo i giocatori che il giorno della presentazione confessano: “Ho sempre tifato per questa squadra”. Oppure quelli che “danno sempre un titolo”. Come Mourinho

Più che i professionisti amiamo le bandiere. Parteggiamo non per chi fa seriamente il suo lavoro, ma per chi lo esterna meglio. Ronaldo non dà confidenza, non si siede fra le brigate dei buontemponi, ma arriva prima degli altri e finisce quando tutti hanno mollato. In ogni ambito lavorativo, questo tipo umano non lo sopportiamo. Carlo Ancelotti, che con CR7 vinse una Champions League allenando il Real Madrid, raccontò questo episodio: “Una notte tornavamo da una trasferta infrasettimanale di coppa. Ronaldo era acciaccato ma voleva recuperare per il weekend successivo. Così, invece di andare a casa, andò a dormire al centro sportivo in modo da recuperare un paio d’ore al mattino per cominciare subito la rieducazione”. 

Facciamo fatica ad accettare questo livello di professionismo privo di legami con la pancia, con il tifo. Ronaldo pensa solo per sé. Vero, ma così pensando, giova anche alla squadra: se un grande professionista fa bene il suo lavoro e gli altri lo sostengono, i risultati arrivano. La Juventus non ha vinto la Champions con Ronaldo non per colpa sua, ma perché gli altri non l’hanno seguito. Si tratta proprio di rovesciare la prospettiva: non è il fuoriclasse che deve fare di meno o scendere al livello degli altri, sono gli altri che devono pretendere di più da se stessi e salire. E, comunque, tanto per fare un esempio, nel finale dell’ultima partita di Champions, in cui il Manchester United ha battuto l’Atalanta in rimonta, abbiamo visto CR7 spazzare la propria area da difensore aggiunto. ’Ndo sta Ronaldo? Anche in difesa. 

Di più su questi argomenti: