Un'immagine di Johann Trollmann

Pugni della Memoria

Mauro Berruto

Le storie dei pugili Johann Trollmann e Hertzko Haft, una vittima e un sopravvissuto ai campi di concentramento. Sport e letteratura per aiutarci, come diceva Primo Levi, a “perdonare sì, dimenticare no”

Una storia malinconica quella di Johann Trollmann, un pugile il cui stile anticipava quello di Muhammad Ali che “volava come una farfalla e pungeva come un’ape”, ma che non potrà vedere quella danza sul ring così simile alla sua, perché ucciso da una bastonata in testa in un campo di concentramento sei anni prima che The greatest venisse al mondo. Trollmann era nato in Bassa Sassonia, nel 1907, da una famiglia di etnia Sinti. Diventato famoso alla fine degli anni ‘20, bello e vincente era un problema da risolvere per gli undici membri della commissione tecnica della federazione pugilistica del Reich: un Sinti può rappresentare le Germania ai Giochi Olimpici di Amsterdam nel 1928? È il miglior talento tedesco, ma, si domandano gli undici: “Che cosa succederebbe se questo ragazzo di vent’anni vincesse ai Giochi? La Germania ha bisogno di un Sinti per trionfare?” La risposta arriva con dieci voti su undici: non si può correre quel rischio, Trollmann resta a casa e il pugile danzante, non può danzare più. La boxe è una cosa seria e, pena la revoca della licenza, Trollmann deve combattere senza potersi muovere dal centro del ring.

 

Così affronterà Gustav Eder nel luglio del 1933. Immobile subisce colpi tremendi fra le risate, perché si è presentato al combattimento con i capelli tinti di biondo platino e con il corpo ricoperto di borotalco, da ariano. Trollmann finirà al tappeto in una nuvola bianca. Radiato dalla federazione, viene inviato prima sul fronte della Loira e poi su quello Russo. Sopravvive, ma il Fürher decide che il Reich non ha più bisogno dei trentamila Sinti che combattono per il glorioso esercito tedesco. Per loro c’è un altro progetto: Trollmann viene deportato in un campo di concentramento, dove sfidato da un kapò, Emil Cornelius, combatterà il suo ultimo incontro. Trollmann, non riesce a sopportare l’ennesima umiliazione della sua vita: farsi battere così, giusto per allietare gli ospiti del comandante del lager cha fa da arbitro. Cornelius va al tappeto dopo pochi secondi, ma il kapò si prenderà la rivincita una settimana dopo con una bastonata sul cranio sferrata alle spalle del campione. Questa storia la racconta Dario Fo, premio Nobel per la letteratura, in un romanzo che si intitola: Razza di zingaro (Chiarelettere editore, 2016).

 

Stesso contesto, stesso sport, esito diverso. Hertzko Haft, ebreo polacco di Belchatow viene deportato nel lager di Auschwitz-Birkenau e strappato a Leah, la donna con cui stava per sposarsi. Essendo fisicamente robusto viene scelto per battersi in incontri violentissimi, destinanti al divertimento dei gerarchi nazisti. Un destino comune, quello di Haft, a quello di Trollmann, Klieger, Sanders, Arouch, Razon, Pietrzykowsky o degli italiani Efrati e Buonaugurio. Molti di loro non hanno mai tirato di boxe, ma sono chiamati a combattere per la propria vita: chi va knockout muore. Hertzko Haft vince 75 volte di fila, diventa un animale da combattimento chiamato la “bestia giudea”. Riesce a scappare dal lager e parte per l’America alla ricerca della sua Leah. Convinto da un manager tenta la carriera professionistica, iniziando con 10 vittorie consecutive, ma arriva il momento di incrociare i guantoni con Rocky Marciano. Messo ko dal campione e segnato per sempre da quella violenza che aveva accompagnato la sua vita, beffardamente troverà la sua Leah, consumata da un tumore, appena prima della sua morte. Questa storia, raccontata dal figlio Alan nel libro Harry Haft: Survivor of Auschwitz, Challenger of Rocky Marciano è stata disegnata in una struggente graphic novel da Reinhard Kleist: Il pugile (Bao publishing, 2014).

Possano aiutarci, in questa settimana dedicata alla memoria, la letteratura e lo sport, a “perdonare sì, dimenticare no”, come diceva Primo Levi.