La vittoria in Champions League del Milan nel 2003 (foto LaPresse)

Il Milan e quei centovent'anni di storie

Giovanni Battistuzzi

Era il 13 dicembre 1899 quando, in una saletta dell’Hotel du Nord, nacque il club rossonero. Un romanzo di vittorie, cadute e rinascite del Diavolo in “1899 A.C. Milan. Le storie”

Qualcuno era milanista perché glielo avevano detto. Qualcuno era milanista perché non gli avevano detto tutto. Qualcuno era milanista perché beveva il vino e si commuoveva a San Siro sugli spalti popolari. Qualcuno era milanista perché non c’era niente di meglio. Qualcuno era milanista perché altrimenti toccava esser bauscia. Ed essere bauscia non sempre si poteva, a volte per danee a volte per estrazione sociale, e mai è consigliato.

 

Qualcuno era milanista semplicemente perché quei due colori, quel rosso che si alterna al nero, sono, almeno a colpo d’occhio, così belli e così caldi che sembrano avvolgenti, attraenti come una favola, una di quelle che si sentono da bambini. Vicini eppure estremi, diavoleschi, quasi liberatori, almeno per diversi decenni. Perché c’è stato un periodo storico nel quale a essere milanisti sembrava di essere liberi, ché se “nel segreto della cabina elettorale, Dio ti vede, Stalin no!”, a San Siro si poteva stare tranquilli anche a inneggiare al Diavolo. Perché ai prevosti, almeno quando le domeniche erano fatte di sveglia-colazione-messa-pranzoinfamiglia, bastava la presenza pre prandiale per lasciare libertà di culto per la funzione del pomeriggio. Si presenziasse allo stadio o alla radiolina non importava, l’importante era non bestemmiare.

 

Qualcuno era milanista perché si sentiva parte di una storia. Una storia metallica, da ferramenta, un cuore a forma di casciavit. Una storia, quella colorata rossonero-Milan, che compie oggi centovent’anni.

 

Era il 13 dicembre 1899 quando, in una saletta dell’Hotel du Nord, che adesso si chiama Principe di Savoia – e ancora si trova a Piazza della Repubblica, all’epoca Barriera principe Umberto – poco più di una dozzina di uomini in giacca, camicia e cravattino (sette inglesi, sette milanesi e uno svizzero) diedero vita al Milan Foot-Ball & Cricket Club. Primo presidente, Mr. Alfred Ormond Edwards, viceconsole di Sua Maestà Britannica a Milano. Capitano, nonché allenatore, nonché ideatore di tutto: Mr. Herbert Kilpin. Pure dei colori. Per evidenze storiche: rosso e nero. Per leggendaria – o forse no – dichiarazione d’intenti: “Saremo una squadra di diavoli, i nostri colori saranno rosso come il fuoco e nero come la paura che incuteremo ai nostri avversari”.

 

Centovent’anni che sono un racconto lungo otto sezioni, settantanove capitoli e otto illustrazioni di Osvaldo Casanova – oltre a una prefazione in sei tappe del poeta e scrittore milanese e milanista Milo De Angelis e un’intervista a Zvonimir Boban –, che si intitola “1899 A.C. Milan. Le storie” (Hoepli 445 pp., 29,9 euro) ed è stato scritto a otto mani da Michele Ansani, Gino Cervi, Gianni Sacco e Claudio Sanfilippo.

 

Storie e non storia, perché non è biografia storica di un club, bensì agiografia di una passione per una squadra, che ne ricompone a pennellate l’evoluzione, le gesta e le imprese, ma non si dimentica mai “che una maglia – scriveva il poeta Umberto Saba e poco importa che si riferisse alla Triestina, fa niente. A Trieste il Milan deve, tra gli altri, Nereo Rocco e Cesare Maldini – altro non è che un vessillo, anzi un simulacro o più precisamente un altare” sul quale si sacrificano vita e dolori per avere in cambio una gioia enorme, pervasiva, sicuramente vitale.

 

Centovent’anni che sono un romanzo piratesco, oceanico, essenzialmente marino, anche se con la geografia poco c’azzecca. Centovent’anni di navigate nel mare di Milano, a volte fosco di bonaccia che non si vede a un metro, sperduto tra sconfitte e impantanamenti di metà classifica, ma che quando arriva il vento ad aprire la nebbia ecco apparire un cielo azzurro e cristallino, splendente come una corona scudettata, brillante come una coppa europea. Perché è europea la dimensione d’elezione rossonera, “perché il Milan è una squadra da sempre proiettata nell’Europa, in un qualcosa che trascende il mero campanilismo, perché se è vero che i rossoneri condividono la città e la dimensione metropolitana del calcio milanese e non solo milanese con l’Inter, hanno anche saputo sublimare questa rivalità in un ambito ben più grande, quello delle coppe europee”, dice al Foglio Michele Ansani

 

 

Qualcuno è milanista per “caso, almeno agli inizi, se non lo era per parentela o vicinanza”, continua Ansani. Eppure, lo era anche “per indole, per modo di essere, di presentarsi, di comunicare, di sentirsi vicini all’ironia di Rocco e di Liedholm, alla compostezza di Rivera e di Baresi”. Qualcuno era milanista soprattutto per educazione, “perché si era insomma in sintonia con una squadra dove la spacconeria e la violenza non esistevano, che giocava al calcio nel modo più completo e raffinato possibile. Una squadra educata, questo è stato per decenni il Milan”.

 

Qualcuno è milanista per “una spazzola che pettina i capelli alla Rivera”, dice Gino Cervi, “quella di mia madre, milanista e riveriana”. E in mancanza di pettine lo era anche solo “per Rivera o per famiglia, perché di lì non si scappa. La famiglia che ti ha cresciuto rossonero e quella milanista che uno si è scelto poi col tempo”. O forse anche solo per un incontro, “quello che ti ha fatto innamorare del pallone e dei colori, sia stato con il Gianni, con Schiaffino, o con Shevchenko, come è successo a mio figlio. Perché il Milan è sempre una storia familiare”. Lo sanno bene i Maldini, da Cesare a Daniel, passando per capitan Paolo e Christian, figlio dell'ultimo numero 3 rossonero, in rossonero cresciuto per poi prendere strade traverse.

 

Qualcuno è milanista per vicinanza, almeno identitaria e morale, “perché, nell’immaginario di quel Milan e di quella Milano nel quale sono cresciuto, c’era un’umanità che pendeva dalla parte del Milan e alla quale non potevo sottrarmi e da cui non posso sottrarmi ancora adesso con l’esercizio della memoria. C’era una vicinanza a qualcosa di più grande, un profilo poetico, forse sentimentale, che ci avvicina a una sorta di romanzo popolare”, evidenzia Claudio Sanfilippo, sottolineando quel filo rosso(nero) che scorre e accomuna tutte le storie milaniste del libro, una trascrizione in parole “di tutti quei sentimenti che non si vedono in un campo, ma si sentono quando gioca il Milan”.

 

  

Qualcuno è milanista per evidenza e necessità, “perché a essere interisti si fa una vita grama”, sintetizza Gianni Sacco.

 

Forse qualcuno è milanista soltanto per appartenenza, per vicinanza a una storia che è l’insieme di tante storie, di uomini in bianchi braghini corti e una casacca a strisce verticali. Gente da vedere e tifare, gente da rivedere e a cui affezionarsi. A volte anche acriticamente. “Come per Manuel Rui Costa, in assoluto, tra i giocatori che ho visto a San Siro, quello che ho amato di più. Un fuoriclasse, il giocatore che realizzava pienamente il calciatore che avrei voluto essere”, dice Sanfilippo.

 

 

A volte per evidenza. “Perché Gianni Rivera era un modello, un esempio, più di un idolo. Da adolescente cercavo di imitarlo nei gesti, nei movimenti, nell’impiego del piede sinistro, perché per lui un piede o l’altro non c’era differenza, soprattutto per il suo gusto innato più per l’assist che per il gol”, continua Ansani. A volte per ideale. E in quel caso è una mescolanza, unione, perché se ci fosse un Gino Cervi calciatore, questo sarebbe un miscuglio tra “Agostino Di Bartolomei e Roberto Donadoni. In questa scelta però il calcio non conta, conta la sensibilità che questi due campioni hanno dimostrato o meglio quello che sono riusciti a trasmettere”. A volte soltanto per completezza. “Come Seedorf, che non aveva punti deboli, che era ecumenico e affascinante, sebbene ogni tanto si astraesse da tutto”, confessa Sacco.

 

I centovent’anni del Milan non sono però soltanto un racconto di pedate, di dribbling, di gol fatti o salvati, di capitani e bandiere. È anche quella di uomini in giacca e paltò, in tuta e cappellino. Due su tutti: Nereo Rocco e Carlo Ancelotti, almeno per preferenza degli autori. Partenza e arrivo di un genere umano da osteria, trattoria e campo da gioco, di sangue sincero, rosso come quello della maglia e come quello del vino che scorre nei bicchieri a tavola. Allenatori da campionato, ma soprattutto da Europa. Conquistata per due volte da entrambi. In questo caso Europa fa rima con Coppa dei Campioni e Champions League. “Nereo e Carletto sono due espressioni di una stessa storia, una storia provinciale inurbata”, dice Cervi. “L’allenatore perfetto sarebbe un innesto di Ancelotti sulla pianta di Nereo”. Una pianta “impossibile da rimuovere dal ricordo, perché, almeno per me, il Milan è quello lì, quello di Rocco e Rivera, il Milan della mia infanzia matura”, specifica Ansani. Un ottimo vino, “anche se speriamo che il vino ce lo metta Nereo e il culatello lo porti Carletto”, ribatte Cervi. E poi c’è Arrigo Sacchi “a cui va riconosciuto il merito di aver cambiato la storia recente di questo sport, di aver messo in campo un calcio estremo, mai visto, che già allora ci appariva evidente che non avremmo mai più visto in seguito una parentesi così eccezionale. Era quello un Milan sensazionale, che mi ha fatto godere tantissimo. Eppure, se devo scegliere, se devo seguire la strada dei sentimenti, ecco che il mio cuore batte per Ancelotti, ancor più che per Rocco”, almeno per Sanfilippo.

 


Nereo Rocco con Cesare Maldini e Sani nel 1963 (Foto LaPresse)


 

Centovent’anni che sono ricordi piacevoli di grandi vittorie, soprattutto durante gli anni di presidenza di Silvio Berlusconi, di roboanti sconfitte e cadute fragorose. Che sono anche, se non soprattutto, uno stadio: San Siro. Ossia “il tempio, un luogo di culto nel quale si esercita un rito laico che forse, a dirla tutta, non è poi davvero così laico, perché lì c’è qualcosa di trascendente”, chiarisce Sacco.

 

Un libro di tifosi per tifosi – o per chiunque apprezzi la buona scrittura –, o meglio di milanisti per milanisti. Perché il milanista, dice Ansani, “è una tipologia particolare di tifoso. Porta con sé, o almeno lo è stato per decenni e decenni, una sportività d’altri tempi che esclude la gioia per le disgrazie altrui. Il milanista si limitava a esultare per i propri successi e questo andava di pari passo a un certo disinteresse per le sventure sportive delle rivali: non c’era odio contro gli avversari. Ora le cose sono un po’ cambiate, lo sfottò giusto e necessario si è tramutato quasi in disprezzo contro gli altri. O peggio ancora in un vittimismo fastidioso. E tutto questo non è da Milan”. 

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