Senza De Rossi non rimarranno più capitani con la C maiuscola, né bandiere

A Roma l’emozione e l’affetto verso il campione amico e fratello che se ne va non riescono a esprimersi disgiunti dalla rabbia verso qualcuno colpevole di averlo spinto via

Stefano Menichini

[aggiornamento del 6 gennaio 2019] – Daniele De Rossi ha oggi annunciato l'addio al Boca Juniors e al calcio giocato. “È un giorno triste, avrei voluto giocare altri dieci anni, ma la mia è una decisione definitiva. Non è successo nulla di particolare negli ultimi giorni che mi ha fatto cambiare idea e non ho problemi fisici, ma dovevo avvicinarmi a casa, dalla mia famiglia. In particolare da mia figlia Gaia (avuta dal primo matrimonio e che non è mai andata in Argentina in questi mesi, ndr). Tengo a ribadire che non c'è stato nessun problema con il Boca. Anzi, dopo la Roma non pensavo di amare così tanto un'altra squadra. Magari le nostre strade si incontreranno un'altra volta. Ho avuto la fortuna di giocare contro i migliori calciatori del mondo, vestendo le maglie di due club importanti, uno, la Roma, che è tutta la mia vita, l'altro, il Boca, che mi è subito entrato dentro”.

 

Questo è l'articolo con cui Stefano Menichini raccontava il significato dell'addio alla Roma di “Capitan Futuro”.

 


  

È sempre una storia di lacrime sulle tribune e in campo, di cori, sciarpe e striscioni, di compagni di squadra emozionati, di bambini che corrono sul prato, di videoclip con i gol più belli e i trofei alzati. Un copione sempre di successo, con poche varianti, da Andrés Iniesta a Steven Gerrard, dal Camp Nou ad Anfield, per citare solo due addii fra i più recenti e due giocatori “cresciuti in casa” paragonabili a Daniele De Rossi. Dove sempre tutto scorre sui binari della commozione, della nostalgia, dell’attaccamento ai colori, del come eravamo, del calcio romantico che non sarà mai più, tra orgoglio, rassegnazione e auto compatimento, senza traccia né motivi di rancore.

 

E’ stato ed è quasi dovunque così, tranne che a Roma. A Roma, a quanto pare, l’emozione e l’affetto verso il campione amico e fratello che se ne va non riescono a esprimersi disgiunti dalla rabbia verso qualcuno colpevole di averlo spinto via, di averlo costretto all’abbandono o a chiudere la carriera in terra lontana, di non aver onorato abbastanza la leggenda e con essa l’intera storia della società e del calcio.

 

 

Sarà questo il destino, in questo ingiusto e immeritato, anche di De Rossi, domenica 26 maggio, quando al termine di una partita contro il Parma chiuderà campionato, stagione e diciotto anni di carriera dentro la Roma, prima di trasferirsi per gli ultimi scampoli di calcio giocato (a 35 anni) in qualche stadio lontano e probabilmente anonimo. Tutti, quella domenica, potranno misurare l’intensità dell’attaccamento di decine di migliaia di tifosi verso un giovane uomo che per loro ha dato tutto in campo, e ha saputo stupirli fuori dal campo per una maturità e una saggezza non innate, conquistate a forza di errori e trasformazioni. Ma fin d’ora ci chiediamo se il momento topico della serata d’addio sarà il dovuto omaggio al Capitano o i cori prevedibili, inevitabili e sprezzanti verso il presidente Pallotta, colui che stavolta si è assunto la diretta personale responsabilità di non rinnovare il contratto al giocatore simbolo della squadra, andando contro il suo esplicito forte desiderio di continuare.

 

Due anni fa, al termine della tortuosa e controversa vicenda dell’addio al calcio di Francesco Totti, toccò all’allora allenatore Spalletti di metterci la faccia – letteralmente, inquadrato e ritrasmesso dai maxischermi dell’Olimpico – e di prendersi ondate di fischi nel pieno di una cerimonia che avrebbe dovuto essere solo piena d’amore: nella sua bizzarria caratteriale, Spalletti aveva accettato la rogna che chiunque altro avrebbe scansato, cioè di essere colui che spingeva fuori dal campo un grande campione che da solo non se ne sarebbe mai andato. Fu un gesto sacrilego, compiuto in verità con parecchia goffaggine, che a Roma Spalletti non smetterà mai di pagare. Nella Trigoria di oggi, desertificata dai fallimenti sportivi e dalle difficoltà societarie, non ci sono praticamente più né allenatori né direttori sportivi titolari, dunque i cori stavolta saranno tutti per il presidente assente (da oltre un anno), il quale da Boston ricambia la scarsa simpatia dei tifosi e trumpianamente comunica con loro solo via Twitter.

 

Nella sua infinita saggezza mista a feroce sincerità e abilità comunicativa, De Rossi assolve Pallotta (“la società esiste per decidere chi gioca e chi non gioca”), e però sottolinea i tanti mesi trascorsi senza ricevere una sola telefonata e soprattutto scopre l’ipocrisia degli incarichi dirigenziali fittizi offerti agli ex calciatori (se guardo a cosa fa davvero oggi il dirigente Totti, no grazie: ha detto ieri nella conferenza stampa, ed è suonato micidiale per il suo amico ex capitano).

 

Del resto, certo, De Rossi è stato per alcuni anni tra i migliori centrocampisti del mondo, di gran tecnica ma soprattutto di coraggio e strapotere fisico. Questa energia e cattiveria agonistica ce l’ha letteralmente tatuata addosso (con quella specie di segnale stradale impresso sul polpaccio destro: attenti al tackle) e scritta nel curriculum (una quindicina di espulsioni). Ma anche quando non usa i quadricipiti, De Rossi è un calciatore speciale, grazie al cervello e alla comunicativa. Lui non è né bonario né regale, come Totti. Anzi. Con diversi settori della tifoseria ha ingaggiato negli anni duri scambi a distanza: loro lo colpivano dove fa male (le prime tormentate scelte famigliari, le prestazioni spesso migliori in Nazionale che nel club, gli aumenti di stipendio), lui rispondeva denunciando l’invidia della “città di commercialisti”. Polemiche lasciate indietro con scelte di vita tutte originali e azzeccate (la moglie attrice cosmopolita di successo; la casa nel centro storico con terrazza vista Castel Sant’Angelo, cosa a dir poco inconsueta per un calciatore; il giro delle amicizie extra calcistiche, che nel 2012 lo porta ad annunciare un rinnovo di contratto mentre viaggia sul vero taxi del falso tassista Diego Bianchi “Zoro”) e, soprattutto, con una sportività sopra la media, molto poco “italiana”: più di quanto già capitasse a Totti, De Rossi ha ammiratori interisti, juventini, napoletani, perfino laziali, e senza mai fare sconti sulla rivalità agonistica. I commentatori tv stravedono per lui, capace di imbastire analisi tecniche precise, gli intervistatori possono contare su risposte di livello e mai sfuggenti.

 

Insomma, l’Italia del pallone perde un grande protagonista (tornerà, non da giocatore) e i romanisti perdono un altro simbolo della loro identità. Domenica 26 maggio lascerà anche Claudio Ranieri, l’allenatore romano e romanista che nel 2010 pur di vincere un derby che stava perdendo lasciò negli spogliatoi proprio De Rossi e Totti, sconfitti dall’emotività. Dunque non rimarranno né Capitani con la C maiuscola, né volti da imprimere sulle bandiere, né esistenze votate alla Magica Roma. Almeno fosse vero che è da queste perdite e sofferenze che tocca passare per cominciare a vincere qualcosa.

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