Illustrazione di Gianni Ian Puri

Dio, calcio e famiglia. Il pallone prima della scuola calcio

Emmanuele Michela

Gli oratori sono stati i centri di formazione di una generazione di calciatori italiani. Un modello, anche educativo, che è stato quasi del tutto sostituito dalle “scuole”. Indagine su un mondo che è cambiato

Fa fatica Demetrio Albertini a non sorridere quando pensa a quel derby surreale disputato solo due giorni dopo una delle più grandi delusioni sportive della sua vita. “Era il luglio 1994, ed ero appena tornato in Italia dopo la finale persa ai Mondiali, a Pasadena. Mi trovai assieme ad alcuni amici a Villa Raverio, il paese della Brianza dove sono cresciuto, a giocare un match all’oratorio: quelli della mia età contro il resto del paese. C’erano duemila persone a vederci”. Come finì la partita non è dato saperlo, ma poco importa. Quel che importa è il senso dell’aneddoto, a dimostrare una stagione bella del nostro calcio, gli anni Novanta, e la sua vicinanza all’oratorio. Due mondi che hanno sempre avuto un legame speciale e profondo. Quanti sono i talenti che hanno mosso i loro primi passi sportivi all’ombra di un campanile? Tantissimi, e forse se fino a pochi anni fa il nostro pallone, a livello di club e nazionali, riusciva spesso a stare davanti a quello degli altri, la spinta va cercata proprio qui, nel luluogo dove si imparava il calcio. Chi lo ha vissuto racconta con un filo di nostalgia, ma pure con realismo: lì si apprendevano la tecnica e la spontaneità della disciplina. La voglia di vincere assieme alla capacità di allenarsi alla fatica, più che al solo risultato. Il rispetto per il compagno con quello per l’avversario. Un mondo che poi è stato in parte oscurato negli ultimi anni, anche nella sua declinazione sportiva: se non è del tutto vero che gli oratori si sono svuotati, vero è che le scuole calcio si sono fatte più “aconfessionali”. E al netto di ogni retorico rimpianto, tutto ciò che di buono si è perso tra i campi in terra a sette, oggi, forse, farebbe un gran bene al nostro calcio.

 

Albertini, ex gloria del Milan e già candidato alla presidenza della Figc, oggi responsabile del settore tecnico della Figc, fugge dalle soluzioni semplici al tema. Semmai guarda alla sua esperienza e all’impronta che gli ha lasciato la crescita in oratorio. “È stata la mia casa, il mio primo stadio di San Siro – racconta al Foglio –. Per la mia generazione quel campo era il punto di incontro sportivo che radunava tutto il paese. Iniziai a frequentare la parrocchia di Villa Raverio quando avevo 5 anni: uscivo dall’asilo e mio fratello Alessio, che aveva 4 anni più di me e poi è diventato sacerdote, veniva a prendermi per andare a giocare”. Erano gli anni Settanta, la Brianza esplodeva di vitalità e ricchezza, rimanendo fedele alla sua indole lavoratrice: “Mio padre era muratore, ma mi faceva anche da allenatore alla Villese. E come spesso accade negli oratori, era più un responsabile che un vero tecnico, allenava i comportamenti oltre che lo stile di gioco”. Albertini fino a 10 anni giocò per la squadra del paese, “e all’epoca non c’erano gli osservatori: ‘Conosco l’amico del fratello del massaggiatore del tale club che ti farebbe fare un provino’. Questa era la frase che ti sentivi dire se eri abbastanza bravo da pensare di poter giocare ad alti livelli. I nomi che sentivo per me erano quelli vicini a casa: Monza, Milan, Inter, ma anche Como, Desio, Seregno… Ricordo bene quando mio padre scelse di portarmi in quest’ultima società, dove ci misero poco a prendermi come ala destra”.

 

Pochi anni dopo Albertini passò al Milan, club con cui poi, quando ormai non era più un ragazzo ma un professionista, ha vinto tre Coppe Campioni, due Intercontinentali e cinque campionati. Il legame con l’oratorio però non si è mai rotto per lui: “Anzitutto per noi, quando eravamo ragazzi, era un luogo sempre aperto. C’era sempre la possibilità di andare a giocare e di essere accolti. Inoltre era un luogo per tutti, non soltanto per quelli più bravi a giocare. Certo, quando giocavi la priorità era sempre vincere, ma prima di tutto imparavi a stare assieme, rispettando gli altri”. Si è perso qualcosa di tutto ciò, oggi? “Beh, già il nome delle scuole calcio dice tanto. Qualcosa di istituzionalizzato, rigido e poco spontaneo, come appunto una scuola, un luogo dove certo non si va per divertirsi”. La preoccupazione educativa di Albertini è più profonda: “È sempre più diffusa la presunzione, nei giovani e negli adulti, che un ragazzo sia un potenziale campione, snaturando così quello che è in realtà un sogno, qualcosa quindi di più puro. Tutti dobbiamo nutrire sogni, ma anche saperli allenare”. Cita Giovanni Paolo II: “Al Giubileo degli sportivi, nel 2000, sottolineò come lo sport insegni alla fatica per arrivare al risultato, all’allenamento intenso per arrivare alla vittoria. Parlo anche da padre: le generazioni più giovani, oggi, vivono il ‘tutto e subito’ dei genitori, sono quindi meno propense ad accettare un percorso, spesso durissimo, da compiere per arrivare a un risultato”.

 

Chi quel percorso lo ha fatto tutto è Emanuele Filippini, che assieme al fratello Antonio è stata una delle coppie più iconiche del pallone italiano degli anni Novanta. Classe 1973, al Brescia arrivò dopo essere cresciuto nell’oratorio di Urago Mella, e con le Rondinelle ha messo assieme 200 gare tra serie A e B, per poi vestire maglie di prestigio come Parma, Palermo, Lazio, Bologna e Livorno. Oggi è viceallenatore dell’under 17 italiana, incarico che lo ha portato a tu per tu con tanti ragazzini aspiranti calciatori professionisti: “La differenza principale è il fatto che una volta giocavi perennemente a calcio. Ti allenavi due ore, per due o tre giorni alla settimana, ma quello era paradossalmente il meno, perché poi in oratorio ti fermavi di più e giocavi ancora per ore e ore. Oggi, invece, finito l’allenamento si torna subito a casa, per studiare o svagarsi, e per forza, quindi, si fanno meno ore di gioco ed esercizio fisico”. La “scolasticizzazione” della pratica sportiva, sin dalle più tenere età, sa affinare meglio di sicuro i talenti, ma rischia pure di avere controindicazioni: “Il calcio oggi, specie nelle categorie più basse, è fatto soprattutto di schemi, con allenamenti prestabiliti, sin dai Giovanissimi, e nell’organizzazione del lavoro c’è una grande rigidità… Servirebbe invece più spazio alla fantasia, alla sfida uno contro uno con l’avversario. In oratorio facevamo così: ‘Io attacco, tu difendi’, a volte per ore intere”.

 

Emanuele e Antonio iniziarono a giocare a calcio alla parrocchia di Urago Mella a 6 anni, per poi essere selezionati durante un provino con la Voluntas, società anch’essa nata in oratorio negli anni Settanta, bacino di straordinari talenti di marca bresciana: Pirlo è il più noto, ma pure Volpi, Baronio, Diana, Corini, Bonazzoli, Bonera, Guana, e pure Acerbi, oggi titolare alla Lazio. “Era un serbatoio di talenti da cui il Brescia attingeva tantissimo. Andammo a una giornata di allenamenti, io crossai e mio fratello insaccò di testa. Ci presero subito”, racconta Emanuele, che non finisce di elencare quali punti di vantaggio gli ha regalato la formazione sportiva maturata in oratorio. “Giocavi contro chiunque, non ti importava l’età, e questo per forza ti portava a crescere. Inoltre tante volte non avevamo casacche diverse e dovevi riconoscere i compagni semplicemente per la faccia o la voce, magari anche a decine di metri di distanza. E questa, mi accorgo, è un’abilità mentale che i giovani calciatori hanno sempre meno: non sanno guardare al di là dei 10 metri in cui si trovano”.

 

A un’ora e mezza di macchina più a est, nel cuore del Veneto, è cresciuto invece Francesco Toldo, portiere simbolo della Fiorentina degli anni Novanta e campione d’Europa e del Mondo, poi, con l’Inter di Mourinho. “La mia storia è comune a quella di tanti ragazzi: vengo da un paese della provincia padovana, Caselle di Selvazzano, dove c’era la scuola e l’oratorio”, racconta al Foglio l’ex portiere della Nazionale, oggi project manager di Inter Forever. “Fino all’età delle medie rimanevi in paese a fare tutto, studio e sport, e negli anni Settanta c’era il calcio e poco altro. Se volevi giocare dovevi frequentare la parrocchia, non era un obbligo ma un’abitudine appresa dai genitori”. I ritmi erano molto più blandi rispetto ad oggi: “Uscivi da scuola per le 13, poi avevi il pomeriggio per studiare e giocare. Già questa è una delle differenze chiave rispetto ad allora: oggi si sta a scuola molto più a lungo, anche perché i genitori lavorano di più, e quando esci il tempo per praticare sport è minore, relegato per lo più alle accademie sportive”.

 

La squadra dove giocava Toldo esiste ancora e si chiama Usma Caselle – ovvero Unione Sportiva Maria Ausiliatrice – oggi è diventata una polisportiva e non smette di far divertire e crescere centinaia di ragazzi. “Gli oratori per noi erano una casa, entravi e giocavi quando volevi. I nostri allenatori erano persone del posto che avevano un loro lavoro, sapevano giocare a calcio ma non avevano una grande preparazione tecnica. Ecco, forse il problema degli oratori, a livello sportivo, è rimasto questo: non sono riusciti a mettersi al passo coi tempi. Le società di federazione insegnano a giocare con allenatori fatti e finiti, mentre tante squadre d’ispirazione oratoriana non hanno mai voluto investire nella formazione di uno staff atletico di buon livello”. Toldo all’Usma ha ricoperto diversi ruoli: “Ho fatto il terzino, il mediano e il centravanti. Poi, dato che non avevo mai tanta voglia di correre, sono finito in porta. È stata la mia fortuna: sono rimasto in quella squadra fino a 15 anni, quando un ottimo preparatore dei portieri, Giancarlo Caporello, conosciutissimo in Veneto perché ha scoperto tantissimi estremi difensori, mi ha portato al Montebelluna”. Fu l’inizio di una carriera stupenda: Milan, Verona, Trento, Ravenna. Poi Firenze, un amore che non si scorda mai, e l’Inter, con cui ha vinto tutto: “Ma alla mia formazione in oratorio devo tantissimo. Lì ho imparato lo stare insieme e il rispetto delle regole, tanto che ho scelto questa strada pure per i miei figli. Vivo a Milano, loro hanno iniziato giocare alla Nabor, società dove ancora c’è la mentalità di far giocare i ragazzi senza stressarli troppo. Poi però, arrivati a una certa età, li ho portati in accademia”.

 

Altra epoca, altro oratorio, altro talento. Quello di Roberto Boninsegna, campione d’Italia prima con l’Inter, poi con la Juve negli anni Settanta. Nato nel 1943, prima di entrare nel settore giovanile nerazzurro ha giocato per il Sant’Egidio, la parrocchia di Mantova dove viveva. “Era il nostro punto di ritrovo, ogni pomeriggio ci trovavamo lì”, dice. “Poi un osservatore dell’Inter mi portò a Milano per un provino e mi presero: per due anni feci il pendolare, poi pretesero che mi fermassi in foresteria”. Il Sant’Egidio, però, è un’impronta che non si cancella mai: “Da lì ho imparato la disciplina, ma anche un’attenzione umana. E ancora una cosa semplice ma chiave, cioè che lo sport è per tutti. L’oratorio era un tutt’uno con la famiglia, mentre oggi i genitori sono la rovina dei ragazzi. Poco tempo fa sono tornato al Sant’Egidio a fare l’allenatore, per riconoscenza. Dopo tre anni sono scappato via, avevo padri troppo esigenti”.