I giocatori del Brescia festeggiano la promozione in Serie A (foto LaPresse)

Sì, voglio tornare al Rigamonti

Marco Archetti

Il Brescia in A e quei 5 anni sugli spalti che lasciano il segno

“Maledetti, vi amerò”. Va bene, ammetto di averlo pensato. Di averlo pensato recentemente e con pudore, ma di averlo pensato. E di averlo pensato godendo di quel piacere colpevole che mi afferra ogni volta in cui penso qualcosa che non vorrei, quel piacere di quando sono lì e all’improvviso crolla la baliverna delle mie resistenze. A quel punto cosa faccio? Niente, se non osservare certi pensieri furtivi che poi esagerano e si liberano nella mia testa in variopinta parata: un carnevale di quei pensieri malgré moi, di quei pensieri che chissà, di quei pensieri à pois, che increspano la compatta superficie di quel che sono. Niente paura, adesso mi do una calmata e spiego meglio, senza buttarla in dramma, senza buttarla in psicologia, senza buttarla in nient’altro, dopotutto sia ben chiaro che: 1) non ritengo il calcio un male assoluto, ma solo un male molto relativo; 2) non sono uno snob anticalcistico ventiquattro ore su ventiquattro ma solo a quarti d’ora, e tra l’altro dipende dalla persona con cui sto parlando; 3) io, a dirla tutta, allo stadio ci andavo eccome. Volete la precisione? La volete? Be’, allo stadio io ci sono andato per ben cinque anni. Cominciamo, dunque, da un c’era una volta: allo stadio di Brescia, nel 1997, vendevo panini come Di Maio – però votavo Ulivo. Me la facevo su e giù lungo gli spalti e davo via bibite, snack e caffè Borghetti.

 

 

Non amo il calcio, finii allo stadio per pagarmi la vita, ma vidi giocare il Bisonte e Baggio. Già so che tornerò al Rigamonti

Poi, nell’intervallo, insieme ad altri cinque colleghi, scendevo a presidiare il bar sotto la gradinata, e dall’istante in cui la biancoazzura e bardatissima fiumana dei tifosi si riversava alla nostra saracinesca, uno, due, tre, via! si correva come pazzi, un caffè dopo l’altro, un panino dopo l’altro, una Coca Cola dopo l’altra, e in mezzo a quella forsennata catena di montaggio rifocillatoria (occhio ai resti! occhio ai contanti falsi! occhio a chi non paga!) sentivo commenti, sentivo bestemmie, sentivo nomi sconosciuti di calciatori di cui non me ne fregava niente. E non me ne fregava niente perché – ribadiamolo ancora – io allo stadio ci ero capitato non per volontà e men che meno per passione, ma perché ero fuori casa da anni, dovevo pagarmi la vita ed ero in difficoltà seria (ero, senza mezzi termini, alle pezze, tuttavia tornarmene dai miei a elemosinare aiutini, no). Così, quando un giorno mi ha telefonato un amico dicendomi “senti, so che lavori da anni in pizzerie e locali, che ne dici di venire a sostituire uno al bar dello stadio?”, ho risposto “sì, quando vuoi, anche adesso”. In realtà in quel momento avrei sostituito chiunque, perfino al bar del circolo culturale Pietro Pacciani: avevo bisogno di soldi e di tenere insieme la mia vita e soprattutto di non sentirmi così male come mi sentivo. Ma fermi tutti, questa non è una pippa, e giuro che non la butterò in melodramma. Epperò nemmeno vorrei buttarla in commedia, perché io, allo stadio, mentre vendevo panini e bibite e caffè Borghetti, vedevo i sentimenti. Quelli degli altri, va da sé, quelli che non capivo perché a me, del calcio, del Brescia Calcio, di tutte quelle partite del Brescia Calcio, zero, non me ne fregava un accidente, io ero lì per campare e non per guardarmi in giro, anzi, guardarsi in giro era rischioso, perché metti che, mentre ti distraevi due secondi con una fase di gioco poi uno pescava qualcosa dal cassone verde che reggevi a tracolla e a fine giornata i conti non tornavano, quei soldi ce li avresti dovuti mettere tu. Ma per fortuna in cinque anni non è mai successo. In cinque anni di domeniche mangiate una sì e una no (eravamo in servizio nei turni casalinghi, dalle dieci del mattino alle otto di sera) non solo non è successo nulla di tremendo, ma siccome il Brescia giocava bene e allo stadio ci veniva tanta gente, io riuscii a tirare il fiato. E anche, pian piano, a distrarmi.

 

Chi è riuscito a farmi distrarre fu un extraterrestre, cioè uno che sembrava uscito da un libro, e siccome i libri mi interessavano molto più del calcio, la conditio sine qua non per cui io mi accorgessi del mondo intorno doveva essere, come minimo, quella. All’epoca leggevo Soriano (detto anche El Morbillo: tremenda degenza ma poi sei immune per il resto della vita) e un giorno, dritto dai suoi racconti calcistici pieni di realismo magico sportivo, ecco che salta fuori e si catapulta davanti ai miei occhi, a Brescia, sul campo del Rigamonti – in realtà si catapultava da Cesena –, un tizio gobbo e col pizzetto che correva male, che scarrucolava su e giù per il pratone e arava calcio e stava sempre con la testa bassa, trasudava vigore da campo parrocchiale in ghiaia e segnava sempre e comunque, con ogni parte della scarpa. Anche il suo nome era inammissibile: Dario Hübner. E io l’ho amato subito, amato dell’amore folle del convertito causa Apparizione – un amore ubriacato, facinoroso, acritico. E lo devo ammettere: lui, il Bisonte, quel calciatore che putiva magnificamente di grappa e sigaretta, domenica dopo domenica mi insegnava l’amore per una squadra e un senso di appartenenza che altrimenti, predicato da qualcun altro, avrei rifiutato.

 

  

Vogliamo lo stadio nuovo e l’Europa, non quella di Macron ma quella di Corini, Torregrossa e Tonali: state in guardia

Ora non voglio fare il Di Maio della Curva Nord della serie “calciatori del popolo contro calciatori dell’élite”, non è questo il punto, e non solo perché quando il Bertinotti del popolo fece cadere l’Ulivo del professore io lo insignii di epiteti irriferibili, ma anche perché, quando arrivò Baggio e lo vidi mentre con la V bianca sul petto (seconda Apparizione) domenica dopo domenica giocava a biliardo coi piedi, mi infatuai allo stesso modo, per la seconda volta, e proprio dell’antitesi hübneriana che era, di quella scienza balistica e dall’estetica formidabilmente ultraterrena. No, il fatto fondamentale fu un altro, cioè questo: io scoprivo che mi piaceva stare lì, sui gradoni di quel teatro, per applaudire la nostra epopea da sfarfallio cardiaco settimanale. E mi piaceva soffrire mentre cercavo gli spicci da dar di resto a un tifoso, segretamente augurandomi che il gol non saltasse fuori in quel momento, mentre avevo la testa china sul borsello dei soldi.

 

“Maledetti, vi amerò!”. Sì, non posso farci più niente, amo quelli di ieri e quelli di oggi che quest’anno han firmato la promozione, una promozione trionfale perché è stato un trionfo della volontà, e seppur il gioco non ha spumeggiato va bene così, nel calcio si soffre, lo sa bene Eugenio Corini, il nostro allenatore, uno che è stato poco profeta in patria ma massimamente a Verona e a Palermo, uno che mi farà tornare su quella gradinata prima o poi, uno che mi farà fare mille pensieri malgré moi, che farà crollare le mie baliverne, e già so che canterò, maledizione, canterò e vaneggerò sciarpa in resta, perché adesso non ci accontentiamo, vogliamo di più, vogliamo lo stadio nuovo e l’Europa, non solo quella di Macron ma quella di Corini, Tonali e Torregrossa, dunque preparatevi, state in guardia perché stiamo tornando, siamo molto carichi e prontissimi a scarrucolare su e giù per farvi vedere i sorci verdi! (Detto questo, io preferisco il pugilato, lo sanno tutti.)