L'arbitro e l'ego perduto

Alessandro Bonan

Il dramma esistenziale del direttore di gara ai tempi del Var

Ogni partita la stessa storia. Un uomo un tempo nero, al centro della scena, cerca se stesso in qualche scantinato dell’anima. Si aggira con gli occhi smarriti e chiede a voce bassa: restituitemi l’ego perduto. E mentre ciondolante allunga la mano al fischio, come una carità, si chiede come sia finito in quell’empasse, fuori luogo, rispetto ai fasti del passato. L’arbitro senza ego, guarda altrove, non è più concentrato sull’azione. L’azione è il passato rispetto a quello che deve valutare. L’azione non è già più. E questo spostamento in avanti del gioco, come un continuo replay dell’esistenza, lo intristisce. La sua faccia al centro di una cornice, un quadro appeso alla parete. Questo è diventato, allegoria di un Var. È nato con lo sguardo deciso e il ciuccio in bocca, il classico fischietto.

 

La verità, giusta o sbagliata che fosse, passava dal suo istinto. La ragione e il torto si discutevano dopo il tresette del bar (lo giocheranno ancora?) e in tv; discorsi inutili e per questo molto diffusi e amabili, o detestabili a seconda dei gusti. L’onnipotenza in un attimo, il soffio su una pallina vibrante. Un sibilo sottile, quasi un ultrasuono, il cui diffondersi provocava l’improvvisa attenzione di tutto il mondo. Si voltavano animali e uomini. Tra questi i calciatori, poi i presidenti, i procuratori, i parenti, i tifosi, gli assenti e i presenti. Si voltavano i politici, quelli importanti, gli scrittori, gli artisti pop e persino i poeti. I cantanti, i musicisti strani e quelli nazional popolari. Si voltavano gli scienziati, gli ammalati. I poveri si dimenticavano di essere poveri e i ricchi di essere fortunati. Il potere di un fischio oltrepassava i confini, scavalcava le montagne, e saliva fino alla Luna per poi tornare giù, come il rimbalzo di un’onda elettromagnetica. Tutto questo non è più. L’arbitro fischia e nessuno se ne accorge.

 

L’uomo un tempo nero, prova a soffiare più forte ma nulla accade. Attende rassegnato che si consumi un’altra storia, in una piccola stanzina buia, con tante tv accese, e un uomo con un gatto bianco in mano, Ernst Stavro Blofeld, quello che fu avversario di James Bond. È lui che decide per tutti, arbitro compreso. Ernst rappresenta la fine del mito, la distruzione morale dell’arbitro così per come lui è nato. Perché questo è il punto centrale. Chi fischia oggi appartiene a ieri, e per ciò ogni tanto punta i piedi e piange perché non accetta che Ernst lo contraddica. È solo una questione di tempo. La nuova generazione accetterà il cambiamento con il sorriso. Il gatto bianco di Ernst miagolerà felice tra le braccia del suo signore, e l’arbitro saluterà il suo ego che volerà lontano alla ricerca di nuovi padroni.

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