Foto LaPresse

La rivincita di Monza e la ricerca della serie A perduta

Michele Brambilla

Il nuovo Monza di Berlusconi e Galliani non è soltanto un’operazione nostalgica. C’entrano il cuore brianzolo e una storia da “vicini poveretti” che si può ribaltare

Se un giorno avremo due nuovi derby, Milan-Monza e Inter-Monza, potremo dire che Silvio Berlusconi è ancora l’uomo dei miracoli, perché poche cose sono certe nella vita, e una di queste è che il Monza non andrà mai in serie A. Lo sappiamo bene noi monzesi che da secoli ci sentiamo ripetere che saremo “sempre poveretti”, come pare abbia profetizzato Sant’Ambrogio durante una visita pastorale. “Troppo vicino a Milano, il Monza: chi volete che vada a vederlo, quando in un attimo sei a San Siro? Non avrà mai un pubblico da serie A”. E’ stata ed è tuttora la maledizione di Monza, l’essere “troppo vicina a Milano”. Perché pubblicare un quotidiano a Monza? C’è già il Corriere… Perché un teatro di livello? C’è già la Scala… E così via, da sempre i monzesi si sono sentiti dire che a Monza è inutile provare a fare qualcosa, perché è troppo vicina. Praticamente attaccata. E’ la capitale della Brianza: ma è anche un quartiere di Milano. Bello, verde, ma un quartiere.

 

Quand’ero bambino mi sentivo ripetere spesso che un giorno o l’altro Milano avrebbe assorbito Monza, lo dicevano tutti, era un ritornello, tanto che si racconta che il Duce, quando venne in visita, per rinfrancare l’animo dei mogi camerati monzesi se ne uscì con un mirabolante “e io vi dico che sarà invece Monza, un giorno, ad assorbire Milano!”.

 

Ma l’antica Modoetia di Teodolinda, regina dei Longobardi, non è mai del tutto diventata grande, ha sempre patito Milano al punto che perfino i suoi gioielli – la Villa Reale, il Parco, l’Autodromo – sono in comproprietà fra i due comuni. Poi, è vero, qualche anno fa si è riscattata. E’ riuscita a diventare capoluogo. Ma sempre all’interno di una sua particolarissima legge di Murphy, tanto che, non appena l’hanno fatta provincia, hanno abolito le province.

 


Foto LaPresse


  

Il Monza Calcio, a questa legge di Murphy, è sempre stato saldamente ancorato. Quando Renato Pozzetto, nel film “Agenzia Riccardo Finzi praticamente detective” (un capolavoro assoluto) pronunciò la celeberrima battuta “Io sono del Monza, non riusciremo mai a venire in serie A!”, era il 1979 e il Monza veniva da tre-stagioni-tre di sfiga cosmica, con la promozione dalla serie B alla serie A sfumata regolarmente all’ultimo respiro. Del primo tentativo fallito (1976-’77) si ricordano ancor oggi a memoria gli sfortunati eroi: Terraneo, Vincenzi, Gamba, De Vecchi, Michelazzi, Fasoli, Tosetto, Buriani, Braida, Ardemagni, Sanseverino. In panchina, a contendere la maglia numero 9 a quell’Ariedo Braida che poi sarebbe diventato grande dirigente del Milan berlusconiano, sedeva un giovane di talento, Roberto Antonelli detto Dustin, un futuro rossonero anche per lui. Allenatore era Alfredo Magni da Missaglia, cioè Brianza lecchese (allora comasca) e dunque Brianza profonda, fronzoli pochi e tanto laürà. Memorabile, in un dopo partita, una sua risposta a un giornalista che gli faceva presente che il Monza aveva vinto ma non convinto: “L’importante è che si vinchi, e che il bel gioco che vadi a farsi benedirsi”, rispose l’Alfredone, personaggio breriano quant’altri mai. Magni, più che alla Crusca, pensava al campo. Se Bagnoli era il mago della Bovisa, lui era il mago della Brianza. Quel suo Monza di Terraneo-Vincenzi-Gamba eccetera era uno squadrone che giocava un calcio bello, pulito e veloce. Alcuni degli undici finirono presto a giocare nel Milan: Tosetto, ala destra battezzata “il Keegan della Brianza”, il portiere Terraneo, i centrocampisti Buriani e De Vecchi che gli interisti se li sognano ancora di notte quando mangiano pesante perché autori di due memorabili doppiette in due derby: quella di De Vecchi particolarmente perfida, nel 1979, con i nerazzurri avanti di due gol e Ivano Bordon uccellato – come diceva Brera – due volte negli ultimi minuti.

 

Insomma il Monza 1976-’77 era una meraviglia, e se la giocò alla pari con il Lanerossi Vicenza di Paolo futuro Pablito Rossi (1-1 a Monza nello scontro diretto) ma poi perse tutto malamente, con mezza squadra infortunata o squalificata, a Modena, nell’ultima giornata. L’anno dopo stessa solfa, grande stagione e serie A che sfuma all’ultima partita, a Pistoia, dopo che alla penultima, a Monza, Massimo “Nanone” Silva aveva calciato molle, in bocca al portiere del Lecce, un rigore che avrebbe dato la promozione certa. L’anno seguente andò, se possibile, ancor peggio: i biancorossi finirono a pari punti con il Pescara di Antonio Valentín Angelillo, dal quale furono poi sopraffatti (2-0) nello spareggio di Bologna. Era il 1979, l’anno della battuta di Pozzetto. L’anno in cui si consolidava la certezza che “non riusciremo mai a venire in serie A”.

 

Ora però scende in campo lui: Silvio Berlusconi. Riuscire a smentire il vaticinio di Pozzetto sarà l’ultima mission impossible della sua vita, più impossible che tornare al governo, perché un Berlusconi V farebbe meno notizia del Monza in serie A. Ci proverà, nel miracolo, affidandosi ancora una volta all’uomo che ha fatto grande il suo Milan, Adriano Galliani, che al Monza ha imparato il mestiere di dirigente sportivo. Ufficialmente, leggo nei curricula, Galliani entrò nel Monza nel 1984, ma se la memoria non mi inganna – e ormai m’inganna su quel che è successo l’altro ieri, ma non su trenta o quaranta anni fa – lo rivedo in un dopopartita nella primavera del 1980 mentre, furibondo, urla aggrappato alle sbarre della finestra a piano terra dello spogliatoio dell’arbitro Luigi Agnolin, reo di uno degli errori più clamorosi della storia del football. Quella domenica il Monza, in corsa per la quarta volta consecutiva per la promozione in A, affrontò in casa, al vecchio mitico stadio Gino Alfonso Sada, un Como già ben saldo al primo posto della classifica. Le furie rosse di Magni si portarono sul 3-1, poi subirono il 3-2, ma a pochi minuti dalla fine tenevano bene il campo e stavano mettendo in saccoccia la vittoria. Sennonché piovve nell’area del Monza un pallone maldestro, difficile da controllare. Nicoletti, il lunghissimo centrattacco del Como, lo fermò con un braccio, non riuscendo a stopparlo né con la testa né con il petto. Che cosa sia successo ad Agnolin, grande arbitro internazionale, Dio solo lo sa: fatto sta che fischiò per il Como il più incredibile dei rigori. Finì 3-3 e l’avvocato Raffaele Della Valle, uno dei più noti penalisti italiani, difensore di Enzo Tortora e futuro vicepresidente della Camera per Forza Italia, fece addirittura un esposto alla Procura della Repubblica.

 

Fu, quel 1979-’80, l’ultima volta in cui il Monza – che arrivò quinto – provò almeno a giocarsela, la serie A. Dall’anno dopo cominciò il declino, e per paradosso cominciò quando finalmente il comune si era deciso a costruire uno stadio nuovo, il Brianteo, pensato per un pubblico da serie A. Girava infatti allora la diceria – o forse la leggenda – che il Monza avesse volutamente scelto la parte di Dorando Pietri. Si diceva insomma che la società induceva i propri calciatori a perdere proprio sul più bello, perché non aveva uno stadio adatto alla serie A. Per anni, si cercava di convincere il comune a edificarne uno più capiente e più al passo con i tempi. Ma proprio quando arrivò il sospirato stadio nuovo, qualcosa di magico si ruppe.

 

Lasciando il vecchio Sada – uno stadio da diecimila posti in centro città, dietro la stazione – il Monza perse anche l’anima. Il Sada era uno stadio caldo, con il pubblico a ridosso del campo, e con il pallone che finiva nel fiume Lambro quando gli attaccanti tiravano sopra la traversa. Ci si arrivava a piedi, e dopo la partita ci si fermava al bar di fronte a commentare bevendo il bianchino spruzzato (vino bianco più Campari Soda) o il grigioverde (grappa Nardini bianca più menta). Lì, al Sada, avevano giocato con la maglia biancorossa il mastino dell’Inter di Herrera, Carlo Tagnin; il poeta del gol Claudio Sala, il giaguaro Luciano Castellini, e ancora un altro protagonista del Toro campione d’Italia come il mediano di spinta Patrizio Sala, e poi quel simpatico geniale pazzoide di Emiliano Mondonico, il portierone della Lazio di Maestrelli Felice Pulici, brianzolo di Sovico, le giovani promesse Daniele Massaro e Paolo Monelli, il grandissimo Alessandro Costacurta, e pure un Evaristo Beccalossi a fine carriera e ormai vicino al quintale. Al Sada hanno allenato Gigi Radice e Nils Liedholm. Anzi Radice a Monza ha aperto e chiuso la carriera con due promozioni della B alla C: il cuore granata dello scudetto 1976 deve tanto al suo Monza.
Dopo il Sada, al Brianteo di cuore se ne è visto poco, e di gloria ancor meno. Sì, alcuni buoni giocatori, anche buonissimi (Pierluigi Casiraghi, Luigi Di Biagio, Maurizio Ganz, Patrice Evra, i portieri Francesco Antonioli e Christian Abbiati): ma il nuovo stadio concepito per ospitare Juve Inter e Milan è sempre stato mezzo vuoto, anzi quasi tutto vuoto, tante stagioni anonime nelle serie minori, tante disavventure societarie, tanta rassegnazione.

 

Portare il Monza in serie A è per Silvio Berlusconi e Adriano Galliani soprattutto, anzi solo, una questione di cuore. Galliani è un munsciasc doc, a Monza ha fatto perfino il geometra in comune. Berlusconi invece è milanese dell’Isola, quartiere un tempo popolare e oggi di gran moda. Ma in Brianza il Cavaliere ha scelto di vivere da tempo immemorabile, prima ad Arcore, poi a Macherio e poi ancora ad Arcore. Soprattutto, della Brianza Berlusconi condivide e vive lo spirito profondo: il fare, il laürà, i danee. Forse i due si stavano annoiando. Dicono che Galliani, in Parlamento, diventa matto a vedere gli altri che governano – che “fanno”, brianzolamente – mentre lui deve stare lì a guardare. Berlusconi, poi, non solo non è neanche in Parlamento, ma da numero uno del centrodestra è diventato numero due. Mai successo, a lui, di essere un numero due. E allora il Monza, di nuovo da numero uno, perché meglio primi in un villaggio che secondi a Milano. E se riuscirà a portare il Monza in serie A, varrà come le cinque Champions vinte con il Milan, in un certo senso di più.

 

La nuova avventura di Berlusconi nel calcio non comincerà con una discesa in elicottero sul Brianteo, come vedemmo all’Arena trentadue anni fa. Non gli porterà né la gloria sportiva né i voti che gli portarono il Milan. E forse sarà solo una struggente ricerca del tempo perduto, la meravigliosa follia di illudersi di tornare giovani: ma proprio per questo sarà – è già – una storia bellissima.

Di più su questi argomenti: