Un'immagine di archivio di John McEnroe (foto LaPresse)

Non essere McEnroe

Maurizio Crippa

Serena Williams ha sbroccato, e basta. Ma non ha detto niente di interessante, non è il suo sport

Milano. Uno degli spettacoli più entusiasmanti fu nel 1984, Serena Williams era allora poco più grande della sua bimba oggi, si giocava a Stoccolma e John McEnroe ebbe uno dei suoi omerici accessi di rabbia (secondo altri erano solo crisi regressive di infantilismo), o fu un titanico gesto di ribellione nei confronti del Sistema, il Sistema del tennis in quanto tale. Disse parole di fuoco, adoperò la racchetta come il prode Orlando la spada nelle celebri ottave della Pazzia, si beccò 7.500 dollari di multa e ventuno giornate di squalifica da scontare nei tornei a venire. Ma alla fine sconfisse Ivan Lendl, e si prese il trofeo. Lui.

 

Quando nel 2008 fu espulso per insulti al giudice arbitro, e non era più agonismo, era la Hall of Fame Champions Cup, un circuito di vecchie glorie, si sentì nel gelo dell’arena uno spettatore gridargli dietro: sei una femminuccia. Pensate se l’avessero gridato a Serena Williams, dopo le sue recriminazioni sessiste. Si potrebbe argomentare, per riprendere il titolo del bel libro di Tim Adams di una quindicina di anni fa, “Essere John McEnroe”, che spiegava alla perfezione l’ontologia del fenomeno McEnroe, che la differenza tra Serena Williams e McEnroe è tutta qui: lei non è McEnroe. Sentenza azzardata, nell’epoca in cui ogni affermazione che riguardi la competizione tra i sessi deve uscire distillata e purificata da cento giri nell’alambicco del correttismo. Figurarsi se poi ci si prova ad aggiungere che l’arbitro sul seggiolone non l’ha trattata più duramente perché è una donna. 

 

O peggio ancora perché è una mamma. Sono due frasi vuote, dette da Serena Williams, figlie di una consapevolezza, persino di genere, minore. Ma se parole così, in un momento di alta tensione agonistica, superano la barriera e vengono fuori, è perché giacciono in una specie di subconscio collettivo, un deposito delle palline della banalità. E’ andata bene così, sarebbe potuta sfuggirle anche una denuncia contro il razzismo della società americana amplificato dallo sport. E saremmo qui a dover scrivere che è colpa di Trump.

 

La verità più semplice è che Serena Williams ha sbroccato. Libero sbrocco in libero sport, se volete. Ma non ha ragione, perché per avere ragione, per saltare la rete che divide la cronaca sportiva dal campo del mito, bisogna essere John McEnroe, e non Serena Williams. Nel suo più celebre momento d’ira, sul prato di Wimbledon nel 1981, ai tempi in cui in Inghilterra l’etichetta contava ancora qualcosa, Diana Spencer aveva appena iniziato a picconare le istituzioni, McEnroe ripeteva come un dio disturbato durante la Creazione e precipitato nel bel mezzo di una favola per idioti: “You cannot be serious”. Ed era uno yankee alla conquista del mondo, ed era un ace in faccia all’establishment, ed era qualcosa che cambiò non le regole del tennis, ma i comportamenti sociali intorno allo sport.

 

La storia dello sport è ricca di sbroccatori seriali, nemmeno Serena Williams è una neofita in materia. Ma tra contestare la decisione di un giudice arbitro straparlando di gender equality e trasformare un mondo, c’è differenza. McEnroe è stato il fuoriclasse che ha cambiato le regole della comunicazione e portato il tennis nell’epoca globale e il divismo in una dimensione altra rispetto all’agonismo. Serena Williams ha vinto tanti Slam, ma non ha aggiunto niente a quello che sappiamo già, del mondo. Perché tirare fuori dalla sacca della bile la faccenda del sessismo è banale, tirar fuori la figlia è semplicemente ridicolo. Ma soprattutto perché nella sua strepitosa carriera di tennista, è stata una tennista, e basta. Una che avrebbe potuto dire anche: arbitro insensibile. Figli di una furia minore.

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  • Maurizio Crippa
  • "Maurizio Crippa, vicedirettore, è nato a Milano un 27 febbraio di rondini e primavera. Era il 1961. E’ cresciuto a Monza, la sua Heimat, ma da più di vent’anni è un orgoglioso milanese metropolitano. Ha fatto il liceo classico e si è laureato in Storia del cinema, il suo primo amore. Poi ci sono gli amori di una vita: l’Inter, la montagna, Jannacci e Neil Young. Lavora nella redazione di Milano e si occupa un po’ di tutto: di politica, quando può di cultura, quando vuole di chiesa. E’ felice di avere due grandi Papi, Francesco e Benedetto. Non ha scritto libri (“perché scrivere brutti libri nuovi quando ci sono ancora tanti libri vecchi belli da leggere?”, gli ha insegnato Sandro Fusina). Insegue da tempo il sogno di saper usare i social media, ma poi grazie a Dio si ravvede.

    E’ responsabile della pagina settimanale del Foglio GranMilano, scrive ogni giorno Contro Mastro Ciliegia sulla prima pagina. Ha una moglie, Emilia, e due figli, Giovanni e Francesco, che non sono più bambini"