Phil Knight, fondatore di Nike

Quell'ossessione per il momento magico che ha reso grande la Nike

Stefano Pistolini
Phil Knight, l’uomo che vale decine di miliardi di dollari in quanto fondatore della Nike, tra sogno americano e suole rivoluzionarie. A 78 anni e in procinto di lascirae la guida dell’azienda, Knight esce dalla riservatezza con l’autobiografia “Shoe Dog”, che nella traduzione italiana Mondadori diventa, trionfalisticamente, “L’arte della vittoria”.

Se avessero fatto in tempo, a Hollywood avrebbero montato un film in cui al miliardario pazzo, sull’orlo di mettere le mani sul paese – diciamo tipo Donald Trump – si opponeva l’unico capace di tenergli testa: il miliardario buono. Che sarebbe Phil Knight, l’uomo che vale decine di miliardi di dollari in quanto fondatore della Nike, il marchio che ha rivoluzionato i nostri piedi a tutte le latitudini. Knight è un figlio della West Coast e ne incarna la filosofia di vita, a prima vista rilassata, ma sottotraccia tenace e dal coraggioso animo imprenditoriale, aperta a ogni avventura per costruirsi un futuro e indissolubilmente legata ai princìpi dell’individualismo che hanno fatto di quella terra il laboratorio della modernità. Titolare di una fortuna che l’apparenta a Bill Gates e a Warren Buffett, filantropo capace di devolvere un miliardo di dollari alla ricerca sul cancro, sostenitore del principio di rimettere in circolo le ricchezze anziché accumularle (primo comandamento di Andrew Carnegie, padre del capitalismo americano), a 78 anni e a poche settimane dal giorno in cui lascerà la guida dell’azienda, Knight esce dalla riservatezza con l’autobiografia “Shoe Dog”, che nella traduzione italiana Mondadori diventa, trionfalisticamente, “L’arte della vittoria”.

 

Nelle sue memorie, Knight si disinteressa della mistica Nike, intesa come brand planetario. Invece gli sta a cuore raccontare come tutto sia cominciato, mostrando l’ossessione per la ricostruzione del momento magico, in una tradizione che l’apparenta a tanti tycoon prima di lui, W.R. Hearst per dirne uno. Nel caso di Knight, tutto parte da una discreta carriera sportiva nella squadra di atletica leggera dell’Università dell’Oregon, agli ordini di un coach, Bill Bowerman, con una fissazione: mettere le mani sulle scarpe dei suoi atleti, modificandole per renderle il più efficaci possibile. Mentre completa gli studi a Stanford, Knight lavora a una tesi su come le sneakers giapponesi stiano penetrando nel mercato americano nello stesso modo in cui, pochi anni prima, le macchine fotografiche del Sol levante avevano soppiantato il predominio di quelle tedesche. L’idea gli ronza in testa e allora il giovane e dinoccolato Phil compie tutte le mosse giuste, come in un manuale per il successo: ottiene un modesto finanziamento dal padre, editore di un giornale a Portland. Poi apre una società con sede nel suo garage e la chiama Blue Ribbon. Quindi ottiene dal marchio giapponese Onitsuka (oggi Asics) i diritti distributivi della scarpe Tiger. Infine va a cercare il vecchio coach e si affida alla sua utopica supervisione tecnica, a cominciare dalle rivoluzionarie suole, progettate usando una griglia per le cialde.

 

Gli anni 60 corrono e gli inizi sono difficili: alla Blue Ribbon la regola è reinvestire gli utili e bisogna stringere la cinghia, ma arriva il giorno in cui si comincia a fare in proprio. Il design del logo “swoosh” viene pagato 35 dollari alla studentessa Carolyn Davidson e a Phil non piace granché. Anche sul nome ha dei dubbi: vorrebbe chiamare la nuova azienza Division Six, ma si fa convincere che il nome breve ed esotico della divinità greca della vittoria funzioni meglio. Si parte con Nike. Oggi ci sono 60 mila dipendenti, un bilancio da 30 miliardi di dollari, gli endorsement coi campioni che fanno la storia dello sport – dal primo importante, John McEnroe, passando per Michael Jordan, Tiger Woods e Kobe Bryant. Le pagine di Knight trasudano dell’ottimismo americano che oggi lui dice di vedere annebbiato nei ragazzi del XXI secolo, compressi e spaventati. La sua America di fine Novecento è una nazione pronta a premiare chi ci sa fare, un mercato dove tutti sono pronti a consumare, dove vige il culto del gioco di squadra, grazie al quale la Nike diventa la leggenda del business.

 

Dei momenti bui della sua storia, come la messa sotto accusa del marchio per lo sfruttamento della manodopera nei paesi in cui Nike fabbricava i prodotti (poi ridimensionata), o la perdita di suo figlio Michael, morto in un’immersione, il libro s’occupa sbrigativamente, con pudore e imbarazzo. A Phil piace raccontare ironicamente l’inizio della storia d’amore con Penny, che diventerà sua moglie, o di quanto non sopportasse i boriosi tedeschi della Adidas, che dominavano il mercato. Lui aveva la visione, aveva la brigata, aveva la casa  cui tornare e l’insostituibile sensazione che tutto sarebbe stato possibile. La Nike sarebbe diventato il marchio dei marchi. E la sua era la terra dove i sogni diventavano realtà. A patto di prepararsi e fare ogni cosa a puntino. Giusto aspettando che scoccasse la scintilla giusta.

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