Lance Stroll (foto LaPresse)

Stroll, la F1 è affare di famiglia

Fabio Tavelli

Il tycoon Lawrence Stroll compra una scuderia di Formula 1 per far correre il figlio Lance. In uno sport dove i soldi contano molto, ecco una storia in cui contano ancora di più

C’è una vecchia filastrocca, del 1976, cantata da Gianni Morandi, proprio lui, nella quale un padre porta in campagna il figlio con la roulotte e il pargolo, vedendo animali in difficoltà a causa della pioggia, ripete ossessivamente: “Lo prendi, papà?”. E il Gianni nazionale non può di certo sottrarsi a un “sì” che tutto sommato al massimo avrebbe potuto costargli le rimostranze della moglie una volta tornato a casa. Il figlioletto di Morandi chiedeva al babbo di prendergli un gufo, un usignolo e forse un canarino ferito. In questa filastrocca moderna parliamo invece di cavalli, non intesi come quadrupedi, e milioni. I figli, si sa, sono pezzi di cuore. E anche di portafogli, volendola derubricare a questione di vil pecunia. Poi, certo, c’è portafogli e portafogli. Perché più o meno il cuore di ogni essere umano è di dimensioni abbastanza simili. Ma il portafogli no, quello può variare parecchio. Lawrence Stroll ha un grande cuore ma soprattutto un grandissimo conto in banca. Grande cuore, perché per la carriera del figlio Lance ha già investito, orientativamente e per quello che si sa, circa un novantello. Mila? Che sarebbero già tanti. Eh no, milioni. Facciamo parlare Forbes. 722esimo uomo più ricco al mondo nel 2016, 877esimo nel 2018. Uno scivolone tutto sommato accettabile se puoi consolarti con una barca, chiamiamola così per semplicità, per la quale hai speso 200 milioni.

  

Narra la leggenda che il buon Lance, figlio di cotanto padre, abbia la passione per la carne (oltre che per la velocità in auto da corsa). E che ci sia un tipo di carne per la quale va letteralmente matto. Il manzo di Kobe. Bryant? No, qui parliamo di Giappone. Di bestie, con rispetto parlando, allevate in ambiente protetto e selezionato e alimentate solo a riso, fieno e grano. Sono i famosi bovini Tajima, i Cartier della tagliata, talmente pregiati e rari che i quadrupedi vengono massaggiati da appositi addetti per risvegliare i loro muscoli un po’ addormentati per lo scarso movimento. Siamo al top, parliamo di 150 euro al chilo. Ebbene, il ragazzino correva in Italia con i go-kart, tutto spesato dal munifico patriarca, e una sera gli sarebbe piaciuto offrire agli amici una bella grigliata a base di manzo di Kobe in una tenuta in Toscana. Che possiamo immaginare di rango quantomeno equivalente alla casata Stroll. Problemi? Nessuno, per uno il cui padre ha una collezione di Ferrari dove ne spicca una battuta, e comprata, all’asta per 27,5 milioni di biglietti verdi con in effige presidenti americani non più in vita. Stroll padre ha un garage pieno di vetture di Maranello, in Canada è il distributore ufficiale di queste vetture non proprio per tutte le tasche, e si dice che in gioventù sognasse di diventare pilota. Lance vuole grigliare? Non c’è problema. Decolla, con priorità assoluta, uno dei quattro aerei di famiglia. Direzione Japan. Mentre il quarto di pregiatissimo bue viene impacchettato per il viaggio di ritorno, immaginiamo in business class anche se su un jet privato è complicato pensare a una economy, contemporaneamente papino assolda uno chef stellato affinché se chiedi well done non sia né medium né rare. Lawrence Stroll è così, diciamo che per il figlio non è uno che guarda al centesimo. Ma al ricco scemo il signor Stroll, nato in Canada da padre di origini ebraiche, chiamato Strulovitch, sta abbondantemente all’opposizione. Stroll in realtà è il cognome della mamma di Lawrence, nonna di Lance. Anche Senna, nato Da Silva, utilizzava il cognome della mamma. Stessa lettera iniziale, medesimo numero di lettere nel cognome. Per ora, però, mi fermerei qui. I (tanti) soldi Stroll sr li ha accumulati con intuizioni geniali. Il commercio è un’arte e Lawrence capisce che per avere successo una strada sicura è entrare in società con un marchio di abbigliamento pregiato, ci riuscirà con Pierre Cardin, Ralph Lauren, Tommy Hilfiger e Michael Kors, pompare grandi quantità di denaro grazie anche ai suoi soci di Hong Kong, guadagnare quote di mercato e al momento giusto rivendere lucrando sulla differenza. Inattaccabile. Simpatico forse no, si dice che molte penne canadesi fossero ben indottrinate per non insistere troppo quando magari Lance andava bene ma non benissimo. Malelingue. Come quelle che vogliono Stroll padre feroce nemico di Jacques Villeneuve, canadese anche lui ma restio a sposare la carità di Patria senza se e senza ma. Al punto che oggi se Jacques volesse andare nell’hospitality della Williams, e immaginiamo dopo Spa anche della Racing Point Force India, a bere un caffè troverebbe uno sulla porta che gli intima di innestare la retro. Così il padre. Poi c’è il figlio, Lance. Passione per la velocità e talento ancora da comprendere completamente. Certamente non uno sfigato visto che il giovane Lance prima di entrare in Formula 1 ha sempre vinto i campionati ai quali ha preso parte. Ma ci sono alcuni momenti epici della sua storia che non si possono non considerare. Primo: Stroll jr non ha dimestichezza con le piste del Mondiale di Formula 1. Problema? Soluzione: l’anno prima invece di perdere tempo, si fa per dire, in GP2 come gli altri Lawrence affitta la maggior parte degli autodromi dove gareggiano Hamilton e Vettel e ci porta il pupo a girare come un ossesso per fare pratica. Altro che simulatore o PlayStation. Non basta? Certo che no, serve un bravo ingegnere di pista. Preso. Luca Baldisserri, glorioso passato in Ferrari, capo della Ferrari Drivers Academy e punto di riferimento al muretto per Michael Schumacher nel periodo dei titoli piloti come piovesse. Assunto, non per cifre per le quali è necessario riflettere, alle dirette dipendenze di Stroll senior per lavorare con Stroll jr. Serve un coach? Ma certo che serve. Il babbo allora gli prende un brasiliano che molla famiglia e lavoro e si occupa della crescita emotiva, culturale, psicologica e tecnica del bimbo per 480 mila dollari ogni completamento dell’orbita ellittica da parte del nostro globo.

 

Qualcuno eccepirà che è sempre stato così, che in Formula 1 gareggia chi ha i soldi. Certo il talento non è un difetto, il coraggio chi riesce a darselo guadagna già una fila in griglia. Ma la condizione senza la quale non si comincia è il grano. Non quello che mangiano i selezionati manzi con gli occhi a mandorla, ma quello che portano padri, padrini e affini. Tra questi gli sponsor, naturalmente. Con Stroll però assistiamo a un upgrade, alla “valigia 2.0”. Perché la valigia? Quella sul letto è sempre di un lungo viaggio ma quella sulla scrivania dei team principali di Formula 1 arriva da chi poi tiene in mano il volante. Li hanno sempre chiamati i “piloti con la valigia”, ovvero quelli che un posto lo trovano sempre perché a fargli da apripista era una banca, una catena di supermercati o un marchio di abbigliamento o di sigarette. Lawrence Stroll ha fatto di più. Non pago di essere entrato nel capitale della Williams, gloriosa scuderia capitanata dall’eterno Frank oggi abbondantemente sotto il limite della decenza se paragonata ai fasti antichi, per traghettare lo sbarbato Lance su una monoposto di Formula 1, il ricco canadese residente in Svizzera (perché non si sa mai) ha deciso che se pecunia non olet poteva anche fare una mossa ulteriormente smargiassa. La Force India, scuderia inventata da due tycoon come Vijay Mallya e Michiel Mol, ha iniziato a barcollare sotto i colpi di vari tribunali che chiedevano insistentemente notizie del primo dei due, sollecitati da gente che reclamava saldi di fatture emesse. Chiuso a doppia mandata il rubinetto dei pagamenti a dipendenti e fornitori, il sogno Force India stava per diventare pane per i curatori fallimentari. Lawrence Stroll ha fatto due conti. In questo è un maestro assoluto. A quel paese la Williams, che tanto è una carriola, dentro subito nella Force India. Fallimento evitato, dichiarazione di amministrazione controllata per garantire continuità aziendale ed evitare di mandare la gente a casa (primi tra tutti i piloti ma loro alla fine del mese ci sarebbero comunque arrivati) e via a Spa con un nome nuovo (mica poi tanto, si chiama Racing Point Force India) e subito due vetture a punti (che in F1 vogliono dire soldi. E a questa voce LS è uno che sa come indicare la direzione verso il suo iban). E Lance? Per ora rimane in Williams e a Monza ha guidato ancora la vettura sulla quale finì la vita terrena di Ayrton (nel 2019 saranno 25 anni da Imola ‘94). Ma da Singapore, vado a Singapore vi saluto mie belle signore (I Nuovi Angeli, 1972), nella Racing Point Force India potrebbe esordire nientepopodimenoche: Lance Stroll. Figlio di cotanto padre. Perché a questo punto manca solo l’ultimo tassello e il ragazzo, non suo malgrado, avrà detto “la prendi papà?”, intesa come la scuderia, e il destino si compirà quando Lance entrerà nel box Force India e dirà: “Mia, mia, mia!”.

 

Si diceva che i piloti con la valigia ci sono sempre stati, che anche oggi ce ne sono una decina che sono stati preferiti ad altri perché portano in dote sponsor e denari assortiti. Inattaccabile. Ma che un padre comprasse una scuderia per far correre il figlio, beh, questo non s’era ancora visto. I fuoriclasse in materia sono sempre stati centro-sudamericani. Hector Rebaque, Messico e nuvole le sue origini, era talmente ricco che la sua famiglia prestava denaro al governo. Per gareggiare in F1 il giovane Hector fece acquistare dal padre le Lotus di Colin Chapman. Siccome non bastava, nel 1971 fondò una sua scuderia. 41 Gran Premi in 5 anni senza lasciare tracce indelebili. Allora el señor Rebaque prese in mano la situazione, ingaggiò John Barnard (il corrispettivo oggi di Adrian Newey, progettista della Red Bull) e convinse Bernie Ecclestone (che ai tempi era proprietario della Brabham) a mettere Hector accanto a Piquet. Nelson divenne campione del mondo, e ti credo, ed Hector qualche quarto e quinto posto riuscì comunque a raggranellarlo. Altro fuoriclasse alla voce “censo” fu Pedro Pablo Diniz. Paparino aveva una catena di supermercati in Brasile e convinse, diciamo così, Parmalat a sponsorizzare il pupo in cambio di fondamentali entrature nel mercato carioca per il marchio dell’allora in auge famiglia Tanzi. Di Diniz le cronache narrano di un pilota certamente non scarso alla guida ma nemmeno indimenticabile. L’eccellenza la raggiungeva invece nella qualità delle fotomodelle che lo accompagnavano. Pare che la sua misura fosse equiparabile all’8,95 di Powell (salto in lungo). Imbattibile. Di Stroll jr si può dire tutto tranne che sia scarso. In Formula 4 e Formula 3 ha vinto i campionati ai quali ha preso parte. E lì un po’ di manico lo devi avere perché papà ti prende la macchina ma poi dentro ci vai tu. Ora però l’asticella è un po’ più alta. Ma se quando si era piccoli portare il pallone garantiva di poter giocare, nel caso di Stroll jr la cosa da portare è la valigia. Possibilmente diversa dal bagaglio a mano.

 

Fabio Tavelli, conduttore Sky Sport 24 e “Race anatomy”.

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